Messa alla prova degli Enti

Cassazione: Le sezioni unite dicono no alla messa alla prova degli enti

24 aprile 2023


di Cipriano FICEDOLO

Le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte con la sentenza n° 14840/2023 – depositata lo scorso 6 aprile hanno posto finalmente fine alla vexata quaestio sull’ammissibilità o meno degli enti alla messa alla prova ex art. 168bis c.p..(1)

L’istituto della messa alla prova:

Prima di entrare nel merito della vicenda squisitamente giuridica, è il caso di inquadrare l’istituto della messa alla prova.

L’istituto della messa alla prova introdotto con la legge 68 del 28 aprile 2014, entrato in vigore nel nostro ordinamento in data 17 maggio 2014, costituisce una nuova causa di estinzione del reato.

In particolare, con l’espressione messa alla prova si intende un istituto di matrice processual-penalistica pertinente soprattutto l’esecuzione della pena.

La norma di riferimento è l’art. 168bis c.p. la quale recita testualmente:

  • Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta. La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108.

Il trattamento consta nell’affidamento dell’imputato all’ufficio di esecuzione penale esterna affinché svolga determinate attività che consistono nello svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, ovviamente a titolo gratuito ed a favore della collettività intera, nonché nella piena riparazione delle conseguenze dannose che siano scaturite dal reato.

È altresì obbligo dell’imputato provvedere a risarcire il danno cagionato con la sua condotta criminosa.

Normalmente, accanto alle sopraindicate attività, il trattamento può prevedere che vengano imposti determinati obblighi all’imputato (divieto di frequentare determinati luoghi) a cui si aggiunge il necessario e costante contatto con l’ufficio di esecuzione penale prodromico al reinserimento sociale.

Lo svolgimento del programma può implicare, altresì, attività di volontariato ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali, sempre avendo a mente la finalità del reinserimento dell’imputato.

Conditio sine qua non per presentare richiesta di messa alla prova è che si proceda per reati che siano puniti con la sola pena edittale che non sia superiore (se detentiva) nel massimo a quattro anni, sia essa congiunta o alternativa alla pena pecuniaria.

Non può essere richiesta da colui il quale sia stato dichiarato delinquente abituale.

Ai sensi dell’art. 168bis, comma 4, c.p. la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta e può essere formulata dall’imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale entro determinati termini, in particolare, può essere richiesta fino a che non siano formulate le conclusioni o sino all’apertura del dibattimento in primo grado oltre che nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio.

Infine, l’art.168ter c.p. prevede espressamente che durante il periodo di sospensione del procedimento il corso della prescrizione del reato è sospeso e che l’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede.

L’istituto della messa alla prova può essere applicato agli enti ex D.Lgs. 231/2001:

una delle questioni più dibattute negli ultimi anni nei tribunali di merito è stata quella avente ad oggetto l’applicabilità della messa alla prova in favore degli enti.

La giurisprudenza di merito si è spaccata in due tronconi fra chi era favorevole all’applicabilità anche agli enti dell’istituto della messa alla prova e chi invece era di segno contrario.

Uno dei primi Tribunali ad esprimersi sul tema nel 2017 è stato, nemmeno, a dirlo quello di Milano(2) – XI Sezione Penale – il quale ha respinto la richiesta di una società di essere ammessa alla prova, motivando l’ordinanza di rigetto sulla base della mancata e specifica previsione negli artt. 168bis c.p. e 464bis c.p.p. dell’applicabilità agli enti del predetto istituto.

Di conseguenza, in assenza, de jure condito, di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui agli artt. 168bis e ss. c.p. alla categoria degli enti, ne deriva che l’istituto in oggetto, in ossequio al principio di riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti, e quindi alle società ex D.Lgs. 231/2001.

Di segno completamente contrario le motivazioni dell’ordinanza del Tribunale di Modena(3) del 2019 con la quale il GIP, investito della questione, ammetteva una società alla messa alla prova ritenendo che, l’istituto della messa alla prova potesse essere applicato anche alle persone giuridiche, in assenza di una specifica previsione normativa di senso contrario ma, soprattutto in considerazione del fatto che nessuna significativa differenza dovrebbe, a rigore, intercorrere tra il programma di trattamento confezionato per la persona fisica e quello confezionato per persona giuridica.

Sempre secondo il GIP modenese, in entrambe le situazioni, infatti, il graduale reinserimento del reo passerà dall’eliminazione degli effetti pregiudizievoli dell’illecito, dal risarcimento del danno ove possibile, dall’integrazione del modello organizzativo e dalla esecuzione di un lavoro di pubblica utilità.

In quest’ottica, si potranno istituire corsi di formazione gratuita, sostenere l’operato di organizzazioni sociali, sanitarie e di volontariato nonché promuovere le più svariate iniziative, purché capaci di apportare un qualche beneficio alla collettività.

Parimenti sovrapponibili risulteranno, infine, la scansione temporale e la concreta modulazione del rito speciale che, nella migliore delle ipotesi, consentirà all’ente la fuoriuscita anzitempo dal proprio circuito processuale.

Nel dicembre 2020 è stata la volta del Tribunale di Bologna(4) il quale si è espresso in senso negativo rigettando la richiesta di messa alla prova di una società sul presupposto che il mancato coordinamento della legge n°67 del 2014 con il testo del D.Lgs. 231/2001 non sarebbe stato frutto di mera dimenticanza del legislatore ma è da considerare voluto in ossequio al principio del ubi lex dixit voluit, noluit tacuit.

Sempre secondo il gip felsineo, la disciplina della sospensione del processo con messa alla prova non è applicabile alle persone giuridiche chiamate a rispondere ai sensi della 231 in quanto non compatibile nei suoi aspetti sostanziali (oltre che, in misura minore, processuali) posto che non ne condividono la eadem ratio.

È del tutto evidente come l’istituto previsto dall’art. 168bis c.p. sia modellato sulla figura dell’imputato persona fisica in un’ottica non soltanto special-preventiva, riparativa e conciliativa ma, soprattutto rieducativa che mal si concilia con la persona giuridica.

Nell’aprile del 2021 a pronunciarsi, ancora una volta in senso negativo rispetto all’applicabilità dell’istituto della messa alla prova in favore degli enti, è stato il Tribunale di Spoleto(5).

Il giudice investito della questione ha ritenuto non percorribile il ricorso allo strumento della analogia, in quanto “il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe, in concreto, ampi margini di incertezze operative; in particolare, rimarrebbe imprecisato l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti, non essendone chiari i requisiti di ammissibilità”.

L’accesso al rito premiale della messa alla prova deve essere negato agli enti – prosegue il Tribunale – «anche per un altro motivo: ossia, il fatto che il programma di messa alla prova, con i dovuti riadattamenti che risentono della assenza di connotazioni antropomorfiche per il soggetto imputato, finirebbe con l’assumere un contenuto sostanzialmente equipollente alle prescrizioni dettate dall’art. 17 D. Lgs. 231/2001».

L’ordinanza prosegue chiarendo che “l’adempimento delle prescrizioni stabilite dall’art. 17 D. Lgs. 231/2001, se avvenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, non prevede l’estinzione del reato, bensì stabilisce, in caso di condanna all’esito del giudizio, una mitigazione del trattamento sanzionatorio escludendo l’applicazione di sanzioni interdittive”.

Di conseguenza, secondo il ragionamento del giudice in tal modo si “offrirebbe all’ente la possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova significherebbe fornirgli uno strumento agevole per eludere la disciplina di cui agli artt. 17 e 65 D.Lgs. 231/2001 consentendogli di ottenere, alle stesse condizioni e senza alcun onere aggiuntivo, il beneficio della estinzione del reato”.

L’ultimo Tribunale a pronunciarsi nel mese di giugno del 2022 è stato quello di Bari(6) il quale, contrariamente alle precedenti pronunce negative ha ritenuto che la finalità del D. Lgs. 231/2001 non contrasti con quella prevista dall’istituto della messa alla prova, rilevando altresì che l’analogia non contrasterebbe con i principi costituzionali di tassatività e di riserva di legge.

Il divieto di analogia difatti opera solamente nel caso in cui vi siano degli effetti sfavorevoli per l’imputato; nel caso in esame tale lesione non si manifesterebbe in quanto l’ente potrebbe beneficiare di un ulteriore strumento processuale che consentirebbe una migliore strategia processuale.

Inoltre, la finalità rieducativa che caratterizza il D. Lgs. 231/2001 non contrasta con l’istituto della messa alla prova, ma anzi entra convergono verso il medesimo orizzonte: il reinserimento sociale del soggetto.

Il Tribunale nell’ordinanza ammissiva, dopo aver ampiamente elencato analiticamente tutti i precedenti giurisprudenziali di merito, evidenzia che tale scelta appare conforme ai principi costituzionali ed alla ratio che sorregge la responsabilità della persona giuridica e quella della messa alla prova.

Il punto di vista della suprema Corte:

Con sentenza del 18 dicembre 2019, il Tribunale di Trento dichiarava non doversi procedere nei confronti di una società ai sensi dell’articolo 464septies c.p.p., per essersi estinto l’illecito di cui all’articolo 25septies, comma 3, D. Lgs. 231/2001, ascritto alla società in relazione al delitto di lesioni colpose gravi contestato al legale rappresentante, per esito positivo della prova, ai sensi dell’articolo 168ter c.p..

Avverso la suddetta sentenza, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Trento proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, sulla premessa che le ordinanze di ammissione alla prova della società non erano state comunicate al suo ufficio; di conseguenza concludeva per l’annullamento della sentenza impugnata e delle prodromiche ordinanze di messa alla prova.

Il ricorso veniva assegnato alla IV Sezione Penale della Suprema Corte la quale, con ordinanza n°15493 del 23 marzo 2022, disponeva la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’articolo 618, comma 1, c.p.p., rilevando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa la legittimazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello ad impugnare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova e/o la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’articolo 464septies c.p.p. e, dipendendo l’esame nel merito del ricorso, circa la legittimità della messa alla prova della società, dalla decisione della questione oggetto di contrasto.

Con decreto del 28 aprile 2022 il Presidente aggiunto, ritenendo la questione fondata, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali, ai sensi dell’articolo 618, c.p.p., preso atto dell’esistenza e rilevanza ai fini della decisione del contrasto giurisprudenziale ravvisato dall’ordinanza di rimessione.

Le questioni di diritto rimesse alle Sezioni Unite possono così riassumersi:

  • Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla prova (articolo 464bis c.p.p.) e in caso affermativo per quali motivi“;
  • Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’articolo 464septies c.p.p.“.

Sulla prima questione rimessa alle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità ha espresso due diversi orientamenti.

Secondo il primo indirizzo interpretativo, il procuratore generale presso la corte di appello è legittimato ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento con la messa alla prova e, nel caso in cui non sia stata effettuata nei suoi confronti la comunicazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza di sospensione, ad impugnare la stessa unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova (Sez. 1, n. 43293 del 27/10/2021, Ongaro, Rv. 282156; Sez. 2, n. 7477 del 08/01/2021, Sperindeo; Sez. 5, n. 7231 del 06/11/2020, dep. 2021, Hoelzi; Sez. 1, n. 41629 del 15/04/2019, Lorini, Rv. 277138).

Il secondo orientamento è sostenuto, invece, dalla sentenza Sez. 6, n. 18317 del 09/04/2021, Stompanato, Rv. 281272, che esclude la legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento, anche unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova, non essendo espressamente individuato tra i soggetti (imputato, pubblico ministero e persona offesa) che possono proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’articolo 464-quater, comma 7, c.p.p.. Secondo tale indirizzo, la natura autonoma del procedimento incidentale di ammissione alla prova, nonché il sistema di impugnazione del provvedimento di ammissione e/o della sentenza ex articolo 464-septies c.p.p. portano ad escludere il fondamento del potere di impugnazione del procuratore generale. Deporrebbero in tal senso i principi affermati dalle sentenze delle Sez. U, n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv.267237, e n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238.

La decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte:

le Sezioni Unite dopo aver ritenuto ammissibile il ricorso immediato per cassazione proposto dal Procuratore generale presso la Corte di Appello di Trento sono passate alla soluzione della questione sulla quale è incentrato il gravame, ovvero la possibilità per l’ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell’articolo 168bis c.p., nell’ambito del processo instaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex Decreto Legislativo n. 8 giugno 2001, n. 231.

I giudici affrontano la questione partendo dal presupposto che le norme relative alla messa alla prova non contengono alcun riferimento agli “enti” quali possibili soggetti destinatari di esse e neppure le norme del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, sebbene introdotte antecedentemente a quelle disciplinanti l’istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni, contengono agganci o richiami deponenti per l’immediata applicabilità dell’istituto di più recente introduzione agli enti.

Gli articoli 34 e 35 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, infatti, nel dettare le disposizioni generali sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, oltre a prevedere l’osservanza delle norme specificamente dettate dal decreto, contengono un richiamo esclusivamente alle disposizioni del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili.

L’applicazione “estensiva” ovvero “analogica” dell’istituto della messa alla prova agli enti – in mancanza di norme di richiamo o di collegamento – ricordano gli ermellini, ha fatto registrare nella giurisprudenza di merito decisioni contrastanti, contrapponendosi ad un gruppo di ordinanze negative all’ammissione dell’ente alla prova (cfr. ad es. Trib. Milano, 27/3/2017; Trib. Bologna, 10/12/2020; Trib. Spoleto, 21/4/2021), altre pronunce, invece, favorevoli (Trib. Modena, 19/10/2020; Trib. Bari, 22/6/2022), tra cui quella oggetto di impugnazione.

Le ragioni ostative all’applicazione estensiva dell’istituto di cui all’articolo 168bis c.p. agli enti risultano enunciate nelle ordinanze negative con argomentazioni diversificate. In particolare, è stato messo in risalto come la sospensione del procedimento con messa alla prova si manifesti, dal punto di vista afflittivo, attraverso lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, rientrante a pieno titolo nella categoria delle sanzioni penali, ma, in assenza – de jure condito- di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all’articolo 168bis c.p. alla categoria degli enti, deriva che l’istituto in esame, in ossequio al principio della riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti e, quindi, alle società in relazione alla responsabilità amministrativa ex Decreto Legislativo n. 231 del 2001 (Trib. Milano, 27/3/2017).

Di contro è stato evidenziato che l’applicazione analogica non sarebbe praticabile, poiché la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il Decreto Legislativo n. 231 del 2001 appare essere in realtà intenzionale. Rispecchia la precisa scelta del legislatore di escludere l’ente dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto.

Inoltre, vi è incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti, connotate da ratio diverse, inconciliabili negli aspetti sostanziali ed anche processuali. L’articolo 168bis c.p. modellato sulla figura dell’imputato persona fisica, in un’ottica, non soltanto special-preventiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa, non è applicabile all’ente, con la conseguenza che deve ritenersi indebita l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova all’ente, in quanto si rischierebbe di introdurre, per via giurisprudenziale, un nuovo istituto del quale lo stesso giudice sarebbe chiamato a declinare i presupposti sostanziali e processuali (Trib. Bologna, 10/12/2020).

È stato evidenziato ulteriormente che, pur volendo ritenere che l’ammissione alla prova dell’ente si risolva in un’interpretazione analogica in bonam partem, astrattamente consentita, tale estensione sarebbe, comunque, inibita dal fatto che il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe in concreto ampi margini di incertezza operativa, non essendo precisato quale sia l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti e non essendo chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità, a differenza di quanto, invece, previsto per gli imputati persone fisiche, con riferimento ai quali l’articolo 168bis c.p. richiede che non ne abbiano già usufruito in precedenza e che si proceda per reati puniti con pena pecuniaria, ovvero detentiva non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione (Trib. Spoleto, 21/4/2021).

Con il diverso orientamento di merito favorevole all’ammissione alla prova dell’ente, attraverso l’interpretazione “estensiva“, ovvero “analogica“, dell’articolo 168bis c.p., è stata ritenuta, invece, la piena compatibilità dell’istituto della messa alla prova con il sistema delineato dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

All’uopo è stato evidenziato che l’ammissibilità dell’ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata al possesso di un imprescindibile prerequisito da parte della società, ovvero l’essersi la stessa dotata, prima del fatto di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice, poiché solo in questo caso sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell’ente, che dimostrerebbe così di essere stato diligente e di aver adottato un modello ritagliato sulle proprie esigenze specifiche per quanto valutato non idoneo dal giudice (Trib. Modena, 19/10/2020).

Con altra ordinanza (Trib. Bari, 22/6/2022), l’ammissione alla prova dell’ente è stata giustificata, con percorso argomentativo più articolato, in base al presupposto che l’applicazione della disciplina della messa alla prova dell’ente non determina una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale, generando effetti favorevoli per l’ente.

Comunque, il difetto di coordinamento tra la disciplina sostanziale della messa alla prova e quella di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001 non è espressione della scelta del legislatore di escludere gli enti dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto in questione. Anche il sistema di responsabilità da reato degli enti risponderebbe a una logica di prevenzione del crimine da perseguire attraverso la rieducazione dell’ente, ossia la prevenzione speciale in chiave rieducativa, declinandosi essa in maniera peculiare. Neppure costituirebbero argomenti idonei ad escludere l’applicabilità della messa alla prova dell’ente, l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella dell’autore del reato, che comunque non impedirebbe all’ente di accedere al procedimento speciale della messa alla prova, atteso che l’esito positivo della prova estingue l’illecito amministrativo. Inoltre, l’incertezza applicativa della messa alla prova all’ente non sarebbe ostativa, traducendosi nella fisiologica sfera di discrezionalità, nell’ambito della quale si muove il giudice in sede di applicazione analogica della legge e che la Costituzione limita quando possano derivare effetti negativi, non sussistenti in tale ipotesi.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire all’interpretazione, secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’articolo 168bis c.p., non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato, di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001 per le seguenti motivazioni.

A questo punto i supremi giudici elencano le ragioni per le quali a loro parare l’istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, riassumendo i punti di approdo della giurisprudenza sia di legittimità che costituzionale, riguardanti le due discipline da porre a confronto – quella di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e quella della messa alla prova ex articolo 168-bis c.p. – al fine di saggiarne la compatibilità e, dunque, la possibilità di applicare il procedimento di messa alla prova all’ente.

Quanto alla prima, occorre rilevare come il tema della natura della responsabilità amministrativa degli enti sia stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità sino alla sentenza Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261112, con indirizzi non univoci, a fronte di un nutrito dibattito anche dottrinario, in merito alla effettiva natura di tale modello di responsabilità, più marcatamente penale, a dispetto della intitolazione del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 “Responsabilità amministrativa dell’ente“.

Secondo tale decisione la natura della responsabilità amministrativa dell’ente è stata ricondotta ad un tertium genus, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo.

A questo punto gli ermellini analizzano l’istituto della messa alla prova dei maggiorenni, ispirato all’analogo istituto previsto per i minori ex articoli 28 e 29 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 448 del 22 settembre 1998, introdotto dalla L. 28 aprile 2014 n. 67; il predetto istituto è volto alla risocializzazione del reo, assicurando in relazione alla finalità special-preventiva un percorso che tiene conto della natura del reato, della personalità del soggetto e delle prescrizioni imposte, così da consentire la formulazione di un favorevole giudizio prognostico.

Esso si inscrive in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice – nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria, o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti di cui all’articolo 550, comma 2, c.p.p. – decide con ordinanza (ai sensi dell’articolo 464-quater c.p.p.) sulla richiesta dell’imputato (formulata secondo le forme e modalità di cui all’articolo 464-bis c.p.p.) di sospensione del procedimento con messa alla prova, quando, in base ai parametri di cui all’articolo 133 c.p., reputi idoneo il programma di trattamento e ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il procedimento di ammissione alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. L’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede, ai sensi dell’articolo 168ter comma 2 c.p. e 464septies c.p.p..

In definitiva, il procedimento in questione dà luogo ad una fase incidentale in cui si svolge un vero e proprio “esperimento trattamentale“, sulla base di una prognosi di astensione dell’imputato dalla commissione di futuri reati, che, in caso di esito positivo, determina l’estinzione del reato (Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238).

Sul tema si è espressa anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n°240 del 2015, la quale ha avuto modo di precisare che il nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio.

Con le recentissime sentenze n° 146 del 2022 e 174 del 2022, la Corte Costituzionale ha ribadito le innegabili connotazioni sanzionatorie dell’istituto della messa alla prova che, da un lato, è uno strumento di definizione alternativa del procedimento, che si inquadra a buon diritto tra i riti alternativi (Corte Cost. sentenze n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015) e, nel contempo, disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, (Corte Cost. sentenza n. 68 del 2019), che conduce, in caso di esito positivo, all’estinzione del reato.

I precedenti innanzi evidenziati della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sulle caratteristiche dell’istituto di cui all’articolo 168bis c.p. consentono di affermare la indubbia natura “sanzionatoria” della messa alla prova dei maggiorenni sulla base degli inequivoci indici rivelatori valorizzati nella sentenza n. 91 del 2018 dalla Corte costituzionale, tra cui:

  • l’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – ai sensi dell’articolo 168-bis, comma 3, c.p. – di prestare lavoro di pubblica utilità, consistente in una “prestazione non retribuita (…) di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività e la cui durata giornaliera non può superare le otto ore;
  • la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno;
  • gli obblighi che derivano dalle prescrizioni concordate all’atto dell’ammissione al beneficio, che possono comprendere attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali, prescrizioni, queste ultime, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto, sia pure in maniera meno gravosa rispetto a quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva;
  • il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato rispetto alla gravità del fatto commesso, nonché la durata della messa alla prova, variabile a seconda della gravità del reato contestato all’imputato;
  • la valutazione dell’idoneità del programma di trattamento in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale e cioè in base ai criteri che sovraintendono ordinariamente alla commisurazione della pena;
  • la previsione di cui all’articolo 657-bis c.p.p., in caso di condanna conseguente al fallimento della messa alla prova, di scomputare dalla pena ancora da eseguire un periodo corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito le prescrizioni che gli erano state imposte e ciò sulla base di un coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta su una valutazione di minore afflittività delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena detentiva.

In conclusione la Suprema Corte, afferma che se la responsabilità amministrativa da reato riguardante gli enti rientra in un genus diverso da quello penale (tertium genus) e la messa alla prova deve ricondursi ad un “trattamento sanzionatorio” penale, sulla base degli indici elencati, deve ritenersi, che l’istituto della messa alla prova non può essere applicata agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’articolo 25, comma 2, della Costituzione.

Conclusioni:

le motivazioni poste a fondamento dalla Suprema Corte per ritenere la non ammissibilità agli enti dell’istituto della messa alla prova a modesto parere di chi scrive non sono assolutamente condivisibili per le seguenti motivazioni.

In primis aderendo alle tesi dei Tribunali di Modena e Bari, le uniche due corti territoriali che si sono espresse in maniera favorevole, di cui se ne condividono in toto le argomentazioni, si evidenzia che la disciplina complessiva contenuta nel D.Lgs. n. 231/2001 tende a imporre all’ente che svolge un’attività economica l’adozione di modelli organizzativi idonei alla prevenzione del rischio di reati commessi da persone fisiche legate all’ente da un rapporto qualificato che abbiano agito nell’interesse o a vantaggio di quest’ultimo, sul presupposto che esso è responsabile ove la sua organizzazione si riveli inidonea a tale scopo.

Dunque, la ratio di politica criminale che ispira il sistema sanzionatorio del D.Lgs. n° 231/2001 non è la retribuzione fine a se stessa, né la mera prevenzione generale (sicuramente perseguita, pure in termini di orientamento culturale delle politiche imprenditoriali), ma la prevenzione speciale in chiave rieducativa: si vuole indurre l’ente ad adottare comportamenti riparatori dell’offesa che consentano il superamento del conflitto sociale instaurato con l’illecito, nonché idonei, concreti ed efficaci modelli organizzativi che incidendo strutturalmente sulla cultura d’impresa, possano consentirgli di continuare ad operare sul mercato nel rispetto della legalità o meglio di rientrarvi con una nuova prospettiva di legalità (ne costituiscono un chiaro esempio le disposizioni di cui agli artt. 6, 12 e 17 del D.Lgs. n° 231/2001).

La finalità rieducativa, quindi, lungi dal difettare, semplicemente si declina in maniera peculiare, cioè in termini di compliance, intesa come funzionalizzazione delle procedure interne all’ente all’obiettivo di prevenire la commissione di reati, al fine di evitare il rischio di incorrere in sanzioni.


Per approfondimenti e normative, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1) Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 14840/2023 del 06/04/2023

(2) Tribunale di Milano, Ordinanza, 27/03/2017

(3) Tribunale di Modena, Ordinanza ex art. 464 quater C.P.P., 19/10/2020

(4) Tribunale di Bologna, Ordinanza, 10/12/2020

(5) Tribunale di Spoleto, Ordinanza, 21/04/2021

(6) Tribunale di Bari, Ordinanza, 22/06/2022



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