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Parità di genere aziendale. Scelta etica o compliance normativa?

20 gennaio 2021

di Florinda SCICOLONE

L’orientamento internazionale che si va delineando indica che la corporate gender equality nel prossimo futuro potrebbe non essere più considerata una scelta etica aziendale, bensì, adempimento al quale tutte le imprese dovranno adeguarsi per non incorrere nel rischio di non conformità.

Infatti, è in atto un percorso internazionale che sta seguendo una direzione di marcia ben precisa che come scopo precipuo sembra mirare al raggiungimento di una forma di obbligatorietà sulle politiche di parità di genere nella Corporate Governance.

Un percorso in tal guisa viene evidenziato dal fatto che, nel 2015, i 193 stati facenti parte dell’ONU nella sottoscrizione dell’agenda ONU 2030, che consiste in un programma di azione per lo sviluppo sostenibile, hanno introdotto tra i 17goals” proprio il raggiungimento della parità di genere in tutti i settori.

Infatti, goal N.5 dell’Agenda(1) de qua prevede il raggiungimento entro il 2030 dell’uguaglianza di genere attraverso traguardi esplicitati in vari punti. In particolar modo, il punto 5.5 prevede di garantire “la piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership ad ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica”.

Il traguardo esplicitato nel punto 5.5 intende quindi che gli stati firmatari dovranno legiferare per eliminare il gender gap entro il 2030. Dal momento che insieme agli stati, attori importanti dell’Agenda ONU sono considerati le imprese, queste ultime dovranno porre in essere una politica aziendale di inclusion women al fine di raggiungere una gender equality.

La volontà internazionale di dare un acceleratore alla parità di genere aziendale è confermata anche dall’Unione Europea.

Infatti, la Commissione europea ha presentato nel Marzo 2020 una strategia per la parità di genere con la quale ha dettato un piano di azione che si dovrà realizzare in un lasso temporale ben preciso, ovvero entro il 2025, con il fine di sostenere “goal N.5” dell’Agenda ONU(1).

Una delle misure indicate per portare avanti tale obiettivo è quella di realizzare strumenti per una pari possibilità per il raggiungimento di posizioni di vertice nel mondo del lavoro.

La Commissione europea, in ottemperanza al piano strategico di azione da realizzare entro il 2025, in tema specifico di gender pay gap, ha indetto una consultazione pubblica(2) che si è conclusa il 29 maggio scorso, proprio sulla trasparenza salariale al fine specifico di introdurre misure vincolanti in materia di trasparenza retributiva per procedere all’elaborazione di una direttiva proprio sulla trasparenza retributiva.

Conseguentemente, nel momento in cui l’U.E procederà con l’emanazione di una direttiva in tema di trasparenza retributiva, significherà che gli stati facenti parte dell’U.E dovranno legiferare per recepire tale direttiva e quindi per le aziende si configurerà un chiaro adempimento in tema di trasparenza salariale tra uomo e donna, in quanto dovranno adeguarsi per obbligo normativo per non incorrere in rischio di non conformità.

Ulteriore tassello dal Parlamento europeo è stato compiuto proprio il 17 dicembre 2020 con l’approvazione di una risoluzione con 500 voti favorevoli su 688 con la quale il Parlamento all’art. 5 della risoluzione invita il Consiglio europeo ad istituire una Formazione del Consiglio dedicata alla parità di genere per agevolare l’integrazione di genere in tutte le politiche e le normative dell’U.E(3).

Importante è leggere tra i consideranda della risoluzione la lettera i) che prevede, tra l’altro, la necessità di una conformazione dedicata alla parità di genere all’interno del Consiglio: “considerando che le donne sono pertanto ancora sottorappresentate e subiscono varie forme di discriminazione sul mercato del lavoro e che l’obiettivo è offrire loro un posto di lavoro con le stesse opportunità degli uomini al fine di ridurre i divari”.

Non stupisce affatto questo trend dell’U.E, anzi, rappresenta il naturale epilogo di un lungo percorso iniziato sin dalla sua costituzione dedicato proprio alla realizzazione della parità di genere in tutti i settori ed in specifico in quello aziendale.

Infatti, l’introduzione del principio della parità di retribuzione a parità di lavoro trova la sua previsione, già, nel trattato di Roma nel 1957. Principio di parità retributiva oggi è trasposto nell’art. 157 del Trattato del Funzionamento dell’Unione Europea. Anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è stata prevista ai sensi dell’art. 23 la parità di genere in tutti i campi come uno dei valori fondamentali dell’U.E.

Importante in materia di occupazione in passato sono state la Direttiva 2006/54(4) e la Direttiva 2010/41(5).

Nel 2010 la Commissione europea ha adottato la c.d “Women’s Charter”, una dichiarazione con la quale ha indicato l’impegno per la parità di genere in tutti campi. Dichiarazione che ha, espressamente, ribadito tra l’altro, l’impegno alla parità retributiva aziendale ed alla parità di genere nei processi decisionali anche aziendali.

Nel Marzo 2011 il Parlamento U.E ha approvato una risoluzione nella quale espressamente ha suggerito agli stati membri di introdurre previsioni normative al fine di assicurare una rappresentanza parietaria femminile ai vertici delle società. In altra risoluzione sempre emanata nello stesso anno ha indicato che le imprese pubbliche avrebbero dovuto assolvere una funzione di esempio verso le imprese private per quanto riguardava la parità di genere nei CDA.

L’Italia, proprio nel 2011, con l’introduzione della legge 120/2011 legge Golfo-Mosca(6) si è dotata di una disposizione legislativa che ha previsto l’introduzione delle quote di genere nei CDA delle società quotate e partecipate. Normativa considerata di rilievo per quanto riguarda la corporate gender equality anche dal Parlamento U.E che in una successiva risoluzione nel marzo 2012 ha espressamente menzionato l’Italia come esempio da seguire per la parità di genere aziendale nei vertici delle società mediante la previsione di quote di genere.

La legge 120/2011 in specifico ha introdotto l’obbligo normativo della riserva di posti a favore del genere sottorappresentato negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in borsa e delle partecipate.

L’art 1 della legge de qua recando modifiche al “Testo Unico della Finanza” con l’inserimento del comma 1-ter dell’art 147 ter TUF affida “…allo statuto delle società il compito della previsione che il riparto dei posti tra gli amministratori da eleggere sia effettuato in base ad un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi”.

Parimenti dalla normativa è stato previsto tale meccanismo di criterio di equilibrio di genere nei componenti del collegio sindacale.

ll successivo art. 3 della suddetta legge prevede le quote di genere anche nelle società partecipate con un meccanismo di rinvio ad un regolamento per la disciplina. Regolamento che è stato approvato nel DPR 251/2012 ed entrato in vigore nel febbraio 2013. Quindi realmente vi è stato una differenza temporale di entrata in vigore tra le società private quotate in borsa il cui impianto normativo è entrato immediatamente in vigore, invece, per le società partecipate soltanto nel febbraio 2013.

Quindi si può affermare che nel nostro ordinamento giuridico nazionale è vigente già una legislazione in tema di corporate gender equality che obbliga l’adeguamento pena rischio di non conformità, cioè pena rischio da parte delle società destinatarie che non si adeguano di incorrere in sanzioni. Infatti, il meccanismo di adozione di quote di genere nelle società quotate è stato posto sotto la vigilanza ed il controllo della Consob alla quale è stata attribuita un potere sanzionatorio consistente nell’emanazione di una prima diffida nei confronti della società che non si adegua. Nel caso in cui, dopo la prima diffida trascorso un periodo temporale preciso, la società medesima continui a non adempiere, alla Consob è stato affidato il potere di comminare una sanzione amministrativa pecuniaria sia per l’organo di amministrazione che per l’organo di controllo di importi differenti.

Per quanto riguarda le società partecipate, la vigilanza e l’irrogazione di sanzione è, qualora non si adeguino, invece, stato affidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri oppure quest’ultimo delega al Ministero Pari Opportunità.

Importante soffermarsi sull’impianto sanzionatorio finale che assurge la legge 121/2011. Infatti, si evidenzia che la fattispecie normativa prevede che nel caso in cui anche a questa seconda diffida la società non procede al riequilibrio di genere è previsto come sanzione estrema la decadenza delle cariche dei componenti eletti.

Il meccanismo, sopra enunciato, era però basato sulla temporaneità, cioè gli effetti della legge rimanevano in vigore per tre mandati consecutivi.

Ma con la legge 160/2019 (Legge di Bilancio 2020), la legge Golfo- Mosca è stata prorogata con una modifica che ha previsto che il periodo di vigenza dei mandati non siano più tre consecutivi, bensì sei consecutivi. Ulteriore modifica ha riguardato la riserva dei posti dal 30% come era previsto nell’impianto normativo originariamente al 40%. Mentre l’impianto sanzionatorio non ha subito modifiche.

Il 40% di quote di genere nei CDA è una percentuale che in Europa per disposizione normativa vige soltanto in Norvegia.

Conseguentemente è da ritenere che la legislazione italiana sulle quote di genere nei CDA delle quotate e delle partecipate può considerarsi e rientrare, quindi, nell’alveo, oggi molto ampio, di legislazione di compliance normativa, perché prevede per le società destinatarie, nel caso di mancato adeguamento agli obblighi normativi, il rischio di non conformità, cioè il rischio di sanzioni non solo pecuniarie, ma addirittura, come sanzione finale, la decadenza dell’intero organo eletto.

Oggi, infatti, l’orientamento che si affermando in materia di compliance normativa è quello di considerare compliance normativa l’insieme di legislazioni ormai, innumerevoli, o regolamenti cui le aziende sono tenute ad adeguarsi per non incorrere in rischio di non conformità, cioè in rischio di sanzioni amministrative, penali etc.

Tornando alla riflessione sulla legge 120/2011, si può evidenziare che ha cambiato gli scenari degli organigrammi dei CDA aumentandone notevolmente le presenze femminili che prima dell’emanazione della legge erano quasi inesistenti. Infatti, dal testo dell’audizione della Consob alla Commissione Finanza del Senato del Maggio 2019 è emerso che nel 2011, ovvero prima di tale legge, le presenze femminili nel CDA delle società private quotate erano intorno al 6%. Invece, nel 2018, momento in cui la Consob ha rilevato i dati, come si evince proprio dal testo dell’audizioni, sono diventati del 36% nei Cda e 38% nei collegi sindacali.

Altra disposizione legislativa in materia di compliance normativa di rilievo in tema di corporate gender equality è inserita nel D.Lgs 254/2016 emanato in attuazione alla direttiva U.E 2014/95. Infatti, l’obbligo per gli Enti d’interesse pubblico di grandi dimensioni di emanare una disclosure non finanziaria include tra le informazioni che dovranno rendere pubbliche attinenti agli aspetti della gestione del personale anche le misure poste in essere per garantire la parità di genere.

Ulteriore elemento di novità in tema di parità di genere aziendale si può considerare l’introduzione delle quote di genere nel Codice di Corporate Governance(7) delle quotate emanato dal Comitato per la Corporate Governance che ha avuto come scopo quello di rendere permanente il meccanismo delle quote di genere nei CDA delle quotate che ha previsto l’invito alle società ad inserire specificatamente una norma negli statuti.

L’excursus sopra citato conferma, pertanto, il chiaro orientamento di voler far diventare la corporate gender equality non più una scelta etica ma adempimento normativo al quale le aziende dovranno adeguarsi per non incorrere nel rischio di non conformità.

Risulta, interessante notare, però, come molte aziende nel percepire tale orientamento, di conseguenza si stanno muovendo anticipando tale obbligatorietà. Infatti, cominciano ad aumentare il numero di imprese che ricevono, da enti preposti un c.d. “bollino rosa”, cioè una certificazione che riconosce l’attuazione della parità di genere nelle politiche aziendali. Segnali importanti e positivi perché auspicano che, ancor prima della valutazione del rischio, corporate governments, finalmente, cominciano a considerare la corporate gender equality non solo come una scelta etica, ma come asset strategico, vincente nel quale investire perché comprendono che è da considerare come un valore aggiunto al business aziendale anche perché verificano che risulta ben accolto anche dagli stakeholder.

 

Intervento di Florinda SCICOLONE, Giurista d’Impresa, Specialist Compliance Management e Senior Legal Counsel c/o Pranema (Gruppo Locorotondo)

 


Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1)   Obiettivi Agenda ONU 2030 – Risoluzione del 21 ottobre 2015

(2)   Commissione Europea – Consultazione pubblica Divario salariale: Trasparenza delle retribuzioni di uomini e donne

(3)   Risoluzione del Parlamento europeo sulla Parità di Genere del 17 dicembre 2020

(4)   Direttiva 2006/54 del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla Parità di Trattamento fra Uomini e Donne

(5)   Direttiva 2010/41 del Parlamento Europeo e del Consiglio sull’applicazione del principio della Parità di Trattamento fra gli Uomini e le Donne

(6)   Legge del 12/07/2011 n. 120 (Legge Golfo-Mosca)

(7)   Il Codice di Corporate Governance, Borsa Italiana, 2020

 



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