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Gli strumenti di prevenzione della Corruzione: il divieto di “pantouflage”

12 gennaio 2022

di Maurizio RUBINI

Premessa
La parola di origine francese “pantouflage” ovvero il fenomeno denominato anche “sliding doors” (per dirla invece all’inglese) vengono utilizzati nel linguaggio corrente per indicare il passaggio di dipendenti pubblici al settore privato e viceversa.

Si tratta di un evento quest’ultimo che, seppure fisiologico in una società caratterizzata da una fluidità e mobilità del mondo del lavoro, può essere particolarmente rischioso per le amministrazioni pubbliche, perché da un lato comporta un depauperamento di professionalità costruite negli anni e dall’altro può rappresentare un pericolo per l’imparzialità dell’azione del funzionario pubblico che potrebbe strumentalizzare l’esercizio dei propri poteri per guadagnare la benevolenza del proprio interlocutore privato al fine di ottenerne dei benefici dopo aver lasciato l’impiego o, anche, rappresentare il compenso per una vera e propria attività corruttiva.

Negli ultimi anni, il diffondersi degli eventi corruttivi ha minato fortemente la fiducia dei cittadini verso le istituzioni avendo, al contempo, anche pesanti ripercussioni sul libero mercato in considerazione della possibilità di occultare utilità illecite sotto varie forme. Per disciplinare tale fenomeno la Convenzione ONU di Merida del 2003(1) aveva già raccomandato agli Stati firmatari l’adozione di una specifica disciplina in materia di prevenzione della corruzione con la previsione di specifiche restrizioni e limiti contribuendo così alla costruzione di un sistema di regole condivise a livello internazionale. In particolare, all’art. 12, par. 2, lett. E) la Convenzione prevede, fra le misure suggerite agli Stati per la prevenzione dei conflitti d’interessi, «l’imposizione, se del caso e per un periodo ragionevole, di restrizioni all’esercizio di attività professionali da parte di ex pubblici ufficiali e all’impiego, da parte del settore privato, di pubblici ufficiali dopo le loro dimissioni o il loro pensionamento, quando dette attività o detto impiego sono direttamente collegati alle funzioni che tali ex pubblici ufficiali esercitavano o supervisionavano durante il loro mandato». In aggiunta lo stesso articolo, al paragrafo 1, invita gli Stati firmatari a «prevedere delle sanzioni civili, amministrative o penali, efficaci, proporzionate e dissuasive in caso di inosservanza delle norme».

SCOPO DELLA NORMA

La norma è stata quindi introdotta nel nostro ordinamento con finalità di contenimento del rischio di situazioni di corruzione connesse all’impiego del dipendente successivo alla cessazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Infatti, con tale disposizione il legislatore ha integrato la disciplina della prevenzione della corruzione nell’ambito della complessa e articolata materia degli incarichi pubblici, mediante l’introduzione di misure nella fase di c.d. post-employment (appunto il pantouflage o l’incompatibilità successiva), preordinate a ridurre i rischi connessi all’uscita del dipendente dalla sfera pubblica e al suo passaggio, per qualsivoglia ragione, al settore privato. Tali misure si affiancano ai meccanismi di pre-employment (le c.d. “inconferibilità”, ossia i divieti temporanei di accesso alla carica) e di in-employment (le c.d. “incompatibilità”, ossia il cumulo di più cariche) previsti dal D. Lgs. 8 aprile 2013, n. 39 – Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico(2) – finalizzati a sterilizzare possibili conflitti di interesse nell’accesso agli incarichi pubblici.

Per un lungo periodo l’Italia aveva adottato quale unica strategia di contrasto alla corruzione quella di tipo repressivo fondata sulle norme penali e soltanto con queste ultime aveva dunque affrontato negli anni ‘90 il grande scandalo che aveva coinvolto una parte rilevante della classe dirigente del Paese divenuto noto con il nome di “tangentopoli” ovvero di “mani pulite”.

Già durante quella fase, però, si era aperto il dibattito sull’opportunità di modificare l’approccio in materia; la corruzione, infatti, strutturata come un patto (sia pure illecito) è un reato senza vittime, difficile da scoprire e punire, di cui emerge solo una minima parte, per cui l’intervento della giustizia penale rischiava di essere parziale, episodico ed insufficiente a ripristinare il corretto funzionamento delle istituzioni.

La Legge 6 novembre 2012, n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione(3) intervenne quindi in modo significativo sul versante preventivo e un po’ meno su quello penale, con l’introduzione di un testo normativo che aveva l’ambizione di porsi come un vero e proprio sistema di prevenzione, anche grazie alle deleghe affidate al governo per completare il disegno riformatore.

PRINCIPALI DIRETTRICI DELLA NORMA

Un primo piano di interventi si concentra sull’organizzazione delle attività amministrative, richiedendo alle amministrazioni pubbliche di svolgere un ruolo proattivo; non solo, quindi, individuando i rischi di corruzione che possono annidarsi nelle attività svolte ma anche indicando le misure per prevenire i fatti delittuosi; entrambe queste attività devono essere delineate in un documento di natura programmatica, obbligatorio per tutti gli enti, il Piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC), che l’organo di vertice dell’amministrazione deve adottare su proposta del dirigente cui compete l’attuazione del piano, il Responsabile della prevenzione della corruzione (RPC) e sulla scorta delle indicazione contenute nel Piano nazionale (PNA) predisposto dall’ANAC.

Un secondo livello di interventi previsto dalla legge 190 si struttura poi su un diverso rapporto fra amministrazione e cittadini; a questi ultimi i funzionari pubblici, sia elettivi che professionali, devono dar conto – principio che in inglese viene espresso col termine “accountability” – e sono costoro, quindi, che possono (e devono) controllare l’operato dell’amministrazione. In questa prospettiva è però necessario consentire ad essi – capovolgendo la logica della riservatezza dell’azione amministrativa – un’ampia conoscibilità delle attività svolte attraverso la massima trasparenza, ovvero mediante la piena accessibilità agli atti e alle informazioni pubbliche.

Un terzo piano di interventi si rivolge, da ultimo, al funzionario pubblico, ai suoi doveri e ai suoi comportamenti, con l’obiettivo di rafforzarne l’imparzialità, evitando, quindi, situazioni in cui la presenza di interessi privati in conflitto con quelli pubblici possa trasformarsi in un rischio di eventi corruttivi.

L’approccio preventivo, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni, è fondato pertanto sull’idea che anche la corruzione, intesa come mercimonio delle funzioni pubbliche, alla stregua di qualsiasi comportamento umano è frutto sì di scelte individuali ma può essere favorita anche da fattori esterni e di contesto.

Seguendo questa impostazione, è possibile, quindi, individuare situazioni di rischio che possono agevolare il verificarsi dei fenomeni corruttivi e, di conseguenza, agire su di esse contenendole con adeguati strumenti, come avviene in altri campi apparentemente diversi e lontani, quale ad esempio la sicurezza sul lavoro. Fra i fattori di rischio della corruzione vengono, fra le altre, individuate proprio le situazioni in cui l’esercizio di poteri pubblici può entrare in conflitto con interessi privati, diretti o indiretti, dei singoli funzionari pubblici, dando luogo a quelle strumentalizzazioni delle funzioni, che sono un tratto tipico e caratterizzante di tali fatti delittuosi. Come chiarito già nel PNA del 2013, il rischio valutato dalla norma è che durante il periodo di servizio il dipendente possa precostituirsi delle situazioni lavorative vantaggiose e così sfruttare a proprio fine la sua posizione e il suo potere all’interno dell’amministrazione per ottenere un lavoro presso l’impresa o il soggetto privato con cui entra in contatto. La norma prevede quindi una limitazione della libertà negoziale del dipendente per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto proprio per eliminare la “convenienza” di accordi fraudolenti.

L’ambito soggettivo di applicabilità della disposizione in esame è riferito a quei dipendenti che, nel corso degli ultimi tre anni di servizio presso la pubblica amministrazione, abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’amministrazione stessa. A tali soggetti è preclusa, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro (c.d. periodo di raffreddamento), a prescindere dal motivo della stessa, la possibilità di svolgere attività lavorativa o professionale in favore dei soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso l’esercizio dei suddetti poteri autoritativi e negoziali.

La complessità del fenomeno corruttivo richiede, pertanto, forme di contrasto giuridico differenziate; in tale ambito il divieto di pantouflage intende prevenire uno scorretto esercizio dell’attività istituzionale da parte del dipendente pubblico, un conflitto di interessi ad effetti differiti, finalizzato a precostituirsi un favor nei confronti di colui che in futuro potrebbe conferirgli incarichi professionali, acclarando il diretto collegamento con il principio costituzionale di trasparenza, imparzialità, buon andamento e di quello che impone ai pubblici impiegati esclusività del servizio a favore dell’Amministrazione (art. 97 e 98 Cost.)(4).
Le conseguenze che derivano nel caso di inosservanza delle “restrizioni” normative prevedono espressamente che “i contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 16 ter sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”.
La norma, apparentemente molto chiara e rigorosa, pone però delle problematiche sia sul piano interpretativo che su quello dell’efficacia e della capacità dissuasiva delle conseguenze punitive.
Uno degli aspetti problematici riguarda ad esempio l’estensione della misura interdittiva; se cioè l’impossibilità di contrattare riguarda la sola amministrazione da cui proviene il funzionario o tutte le amministrazioni. Un altro aspetto critico dell’impianto sanzionatorio costruito dalla legge 190 sta, poi, nell’assenza di qualsivoglia indicazione su chi e come debba accertare le violazioni dei divieti ed irrogare le relative sanzioni.

CONCLUSIONI

La regolazione del pantouflage si è rivelata ad oggi un innesto nell’ordinamento un po’ problematico probabilmente anche a causa dalla fretta con cui il legislatore ha approvato nel 2012 la normativa anticorruzione, che non ha consentito, in quel determinato momento e contesto storico/sociale, di apprezzare tutti i profili che la disposizione avrebbe potuto manifestare in concreto.

Nel corso però degli anni trascorsi dall’entrata in vigore della normativa anticorruzione è cresciuta nel nostro paese, anche grazie allo sforzo legislativo fatto in precedenza, una nuova cultura della prevenzione della corruzione e, di conseguenza, dell’importanza di preservare l’imparzialità del funzionario da ogni genere di condizionamento o di conflitto di interessi. La stessa norma di cui all’art. 53, comma 16 ter del D. Lgs. n. 165 del 2001(5) che disciplina l’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche è stata oggetto di non irrilevanti applicazioni, grazie anche al potere consultivo dell’ANAC e alle indicazioni contenute nei vari PNA adottati negli anni. La regolamentazione del pantouflage è inoltre entrata nel regime dei contratti pubblici, essendo stata prevista nei bandi-tipo una specifica clausola che impone ai soggetti che partecipano alle gare pubbliche l’obbligo di dichiarare di non essere incorsi nei divieti previsti dalla norma.

È auspicabile, però, che il legislatore, nell’ambito di un più generale progetto di revisione, semplificazione ed aggiornamento della normativa sulla prevenzione della corruzione, possa riconoscere a tale istituto una sua dignità autonoma magari estrapolandola dal D. Lgs. n. 165 del 2001 con una regolamentazione più diffusa e dedicata.

 


Per approfondimenti e normative, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1)   ONU Convenzione di Merida contro la Corruzione e Legge 3 agosto 2009, n. 116  –  Ratifica ed esecuzione

(2)   D. Lgs. 8 aprile 2013, n. 39  –  Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico

(3)   Legge 6 novembre 2012, n. 190  –  Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione

(4)   Costituzione

(5)   D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165  –  Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche



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