Compliance Norme

Compliance, PA e Corruzione

24 luglio 2020

di Gennaro Giancarlo TROISO

Il Covid-19, ovvero il contesto emergenziale che ne è scaturito con il presentarsi di oggettive e, man mano, anche nuove situazioni di difficoltà fin dal livello più pratico e semplice della vita di tutti i giorni, ha dato forma e corpo a tantissimi dibattiti. Ha generato la formazione di pareri e analisi fra i più vari, circa l’interpretazione da dare, ancorché in itinere, agli scenari prefigurabili legati al punto di vista del tessuto economico-imprenditoriale e sociale, che lega le componenti produttive e istituzionali di ogni Paese nella ricerca del benessere comune.

Alcuni fra gli scritti a parer mio più centrati che a partire dalla situazione Covid andavano a figurare scenari o situazioni legate ad aspetti specifici e al tempo pratici, del mondo dell’economia produttiva e delle regole che vi sovrintendono, li ho trovati ad esempio qui su Risk & Compliance, che seguo con attenzione per gli argomenti trattati e, più in particolare, per il taglio essenziale e pratico con il quale questi vengono affrontati dai vari autori pubblicati.

In tale ottica ho letto da ultimo con interesse, ad esempio, un articolo del 17 giugno di Marco Cassaro su “Il ruolo dell’organismo di vigilanza, dal Covid-19 alla privacy”, e un altro del 19 giugno di Nicola Lorenzini su “Covid-19 e contrasto alle attività illecite”. Mi si perdoni per questi riferimenti, che non sono e non vogliono essere da parte mia sterile citazione. Seguo un percorso logico, pur se ampiamente discorsivo, per far comprendere al lettore un punto sul quale desidero portare l’attenzione, con l’intento che l’argomento possa poi interessare. Il 22 giugno leggo infatti un altro articolo, di Francesco Domenico Attisano, su “Controlli interni nelle PA, un gap da colmare”.
Negli ultimi mesi, soprattutto in pieno lockdown, non è stato difficile osservare il fiorire di tante iniziative esplicitatesi attraverso l’utilizzo di canali telematici: conferenze e webinar riguardanti le soluzioni da adottare per favorire una ripresa che fosse oltre che economica, sociale, nonché, come ovvio, per preservare e curare la salute dei cittadini.

Quello della sanità e della sua gestione, delle sue eccellenze come delle sue carenze e limiti, come si è potuto constatare dai tantissimi dibattiti multimediali, è risultato essere un argomento affrontato a volte con approccio dirigista, altre con intenti più tecnici mirati alla gestione di un’emergenza che non si era affatto preparati ad affrontare.

A tale proposito, ho avuto l’opportunità di seguire l’iniziativa, con focus specifico sulla sanità, pensata dal Think Tank di Hermes Centro Studi Europeo, in collaborazione con Hermes University, e osservare un approccio innovativo. Oggetto delle sei conferenze di approfondimento era “come dovrà cambiare la sanità dopo la pandemia di coronavirus” e lo scopo, con senso molto pratico, quello di sviluppare proposte, cogliere i cambiamenti in atto e generare riflessioni per ripensare il sistema sanitario nazionale e i possibili scenari futuri. Si è trattato di idee messe a fattor comune coniugando i punti di vista, le necessità, gli intenti e obiettivi, di imprenditori privati e organismi pubblici; di accademici, manager, giovani innovatori, figure di spessore in campo medico e responsabili amministrativi di livello apicale di realtà sanitarie in prima linea, senza dimenticare economisti, analisti e consulenti internazionali e responsabili di tavoli di raccordo in ambito istituzionale.
Il tutto finalizzato alla produzione di proposte concrete formulate per essere indirizzate al decisore pubblico. Di diverso, rispetto ad altre iniziative cui pure avevo assistito, era la concretezza di un gruppo di lavoro eterogeneo formato da persone che non si erano conosciute prima se non forse di nome per le singole attività svolte, e tuttavia pronte a conferire esperienza a partire dai rispettivi punti di vista, per proporre effetti, possibilmente reali, riguardanti le realtà future, nell’intento di ottimizzare e produrre cambiamento indipendentemente dall’estrazione personale, oserei dire per spirito di servizio alla comunità.

È da queste conferenze che mi è venuto il raccordo mentale con l’articolo del 22 giugno di Attisano, che ho citato prima.
Una delle cose che ho infatti potuto osservare partecipando alle conferenze del Centro Studi, è stata la preoccupazione-sfogo di un alto dirigente pubblico che ha rappresentato la sua a volte frustrazione, nel non potere effettuare tempestivamente interventi pur utili, per le notevoli pastoie che ingabbiano l’azione dei decisori locali. In parole povere, trovava difficile a volte raccogliere la “firma” dei dirigenti preposti, per provvedimenti ad esempio di acquisto di beni o materiali necessari, causa i loro timori di poter essere perseguiti (indagati) pur effettuando atti del tutto leciti e in regola. Allo stesso modo, ho memorizzato le preoccupazioni di chi al contrario paventava l’effettuazione di spese anche non propriamente necessarie con i fondi (tanti) che le ricadute dell’emergenza Covid avrebbero potuto portare alla sanità. Si parlava di soldi e, costruttivamente, di come fosse meglio, in quali settori, in quali innovazioni, processi o ristrutturazioni, progettare e programmare il loro impiego. Senza ignorare i rischi di corruzione.

Ed ecco il punto. Il collegamento che mi è venuto alla mente dagli articoli letti su Risk & Compliance e le conferenze di Hermes Centro Studi Europeo, per me che mi occupo di Compliance, è con la Compliance e la Gestione e prevenzione del rischio di corruzione nella Pubblica Amministrazione.

Per quel che riguarda l’operato di una funzione di Compliance nella PA, si tratta di un argomento certamente non facile da affrontare o realizzare, soprattutto in un Paese come il nostro, ancora gravato da un deficit di efficienza della macchina amministrativa. I tentativi e le idee in proposito non hanno potuto che ispirarsi, almeno quanto a principi e intenti, allo spirito e funzione della compliance già presente nelle organizzazioni ed enti privati. I valori relativi alla corretta applicazione del principio di conformità di cui si fa portatrice la funzione, non possono che attenere, all’interno della PA, alle procedure e ai presidi di controllo che devono essere strutturati per gestire le attività conformemente alle disposizioni normative, senza tralasciare la costruzione di un modello che consenta il controllo in continua di atti e processi. Di un modello, che con il coinvolgimento delle strutture operative nelle scelte di processo, possa renderle soggetti, e non solo oggetti dell’attività di compliance, al fine di superare l’avversione ai controlli che è sempre presente in ogni organizzazione, pubblica o privata che sia.

Un antesignano convegno e lavori di AICOM (Associazione Italiana Compliance) in tema di compliance nella pubblica amministrazione risalgono al 2012 e sono stati precursori in argomento, con forte e piena capacità di sintesi e inquadramento della tematica e delle difficoltà legate alle sue complessità e risvolti operativi. Il dibattito e il confronto di idee erano quindi stati aperti con autorevolezza e intento costruttivo, ancorché quasi come una sfida in un contesto di inefficienza amministrativa. Nello stesso 2012 aveva visto la luce la cosiddetta “legge anticorruzione” (la 190/2012); la sensibilizzazione dell’amministrazione pubblica alla trasparenza degli atti attraverso la loro pubblicazione in funzione del controllo degli stessi. A seguire, la costituzione dell’ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione), l’adozione della norma ISO 37001, si inserivano nel solco del miglioramento, efficientamento e controllo della regolarità dell’azione delle amministrazioni pubbliche. Si percorreva la strada per battere l’illegalità.

Il problema fondamentale restava la diffusione e condivisione di una cultura di compliance alla norma. Argomento difficile, in un Paese dove forse ancora è incompiuta la cultura dello Stato inteso come appartenenza a una comunità che fonda il vivere di ogni giorno su valori davvero sentiti. Nel senso cioè, in termini molto pratici, che pare ancora troppo diffuso il senso comune per cui troppa parte dei cittadini, dei singoli abitanti, si sentano di essere soggetti diversi dallo Stato, che percepiscono come soggetto altro rispetto a sé, spesso vessatorio, ingiusto e inefficiente, tuttavia da sfruttare quando possibile e reclamare nel momento del bisogno.

Altro interessante lavoro di AICOM del 2018 in collaborazione con il Compliance Lab del Dipartimento di Economia Aziendale della Università degli studi Roma Tre, aveva riguardato la Gestione e prevenzione del rischio di corruzione nel settore pubblico e privato. Anche in questo caso la disamina degli argomenti e la conseguente presentazione di idee erano state foriere di nuovi spunti, dibattiti e ragionamenti riguardo non solo la valenza, ma anche e soprattutto la necessità della diffusione di una cultura di compliance pur nella PA, mondo tuttavia particolare rispetto al privato. Non si tralasciava di osservare anche i risvolti della trasformazione o nascita di soggetti privati che svolgono attività e compiti di interesse pubblico, controllati o partecipati dalla PA, nelle quali l’istituzione di una funzione di compliance poteva essere più agevole stante la forma societaria assunta.

I PTPCT (Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza) che le amministrazioni pubbliche sono tenute a predisporre, attuare e aggiornare, risultarono ai primi esami dell’ANAC, essere intesi dalle amministrazioni soggette al controllo come un mero adempimento formale senza importanza: un altro dei documenti da stilare e mettere agli atti per dimostrare di avere adempiuto. ANAC poté verificare infatti che addirittura si trattava in diversi casi di copia e incolla da documenti di altre amministrazioni similari, fatto senza neanche cambiarne i riferimenti. Si ignorava completamente il fondamento dei piani da produrre e mettere in atto e ancor più la loro dinamicità, del tutto opposta alla staticità di un adempimento appena formale.

È questo che intendo per carenza di cultura e, per contraltare, per la necessità della diffusione di una cultura, di compliance. È per questo che ho fatto cenno alle “paure” di dipendenti e dirigenti pubblici della sanità nell’essere proattivi, nell’operare in onestà e rispetto della norma per il benessere della comunità, in quanto frenati da un purtroppo diffuso sentimento nella cittadinanza di esistenza di corruzione troppo spesso presente ove si gestisce denaro pubblico, che potrebbe ingiustamente danneggiarli.

Il Rapporto ISTAT sulla corruzione in Italia ne è specchio, quando rileva inoppugnabilmente che anche in ambiente sanitario i numeri a riguardo sono elevati, riferiti principalmente a eventi che hanno visto partecipi famiglie con necessità di visite mediche specialistiche o accertamenti diagnostici, ricoveri o interventi, con dinamiche corruttive caratterizzate da richieste dirette o indirette da parte dell’attore interessato. E il problema più importante è quello che si può definire l’alto “tasso di soddisfazione della clientela”, per il quale l’85,2% delle famiglie che ha partecipato al fenomeno corruttivo ritiene che avere pagato sia stato utile per ottenere quanto desiderato. E ciò non riguarda solo la sanità, quando la percentuale è superiore al 92%, ad esempio, nel caso dell’ottenimento di un posto di lavoro. Si tratta di una mentalità diffusa, quando si ha a che fare con la PA, con lo Stato “altro”. Troppo. Va combattuta ed eradicata. Ma si può fare solo con l’educazione alla cultura non solo del controllo a parer mio, ma dell’appartenenza sociale.

La mia visione di Compliance in sé trovo possa essere intesa come particolare, ideale forse rispetto al comune sentire dei cultori e operatori della materia. Penso infatti che tutto, in ogni attività, pubblica come privata, sia suscettibile di essere “Compliance”, perché attinente ai comportamenti convinti delle persone. Definisco la Compliance come “il controllo dell’esatta applicazione della norma”. L’esatta applicazione che qui intendo è certo coerente e conseguente alla lettera del testo normativo, ma trae fondamento, nella sua interpretazione, dalla ragione di chi applica e controlla con l’attenzione alle motivazioni che hanno determinato la disposizione, intendendola come non strumentale, bensì utile. E per esatta dobbiamo quindi intendere la norma “che rispettiamo perché la comprendiamo come parte dell’equilibrio fra diritti, doveri, aspettative, aspirazioni, del nostro sia pur perfettibile contesto sociale”: strumento di controllo, quanto di progresso.

 

Intervento del Dott. Gennaro Giancarlo TROISO, Consulente ed Esperto di compliance e AML in ambito finanza e intermediazione nonché Socio Fondatore di AICOM (Associazione Italiana Compliance)

 



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