Reinserimento Lavoro

Mitigare il Rischio Paese con il corretto Reinserimento Lavorativo

30 ottobre 2018

di Massimo BALDUCCI

REDDITO DI CITTADINANZA, UFFICI PER L’IMPIEGO, AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE
Lezioni da apprendere da una rapido raffronto con altri Paesi

Il dibattito sul reddito di cittadinanza si fa sempre più serrato. Il dibattito interseca elementi di tipo moralistico con elementi di analisi economica e elementi di analisi istituzionale. Qui ci proponiamo di vedere se il raffronto con altri Paesi può aiutarci a capire il problema.

Il primo aspetto è quello etico. Nel mondo occidentale si crede che ci si debba guadagnare il diritto di vivere attraverso il lavoro. Nell’Italia delle repubbliche comunali del Rinascimento chi non era membro di una corporazione, chi, quindi, non fosse stabilmente inserito nel mondo del lavoro non aveva diritti politici.

L’articolo 1 della Costituzione Italiana si rifà a questa tradizione culturale e non significa che tutti i cittadini hanno diritto ad un posto di lavoro ma, al contrario, che solo chi lavora è un cittadino.

Questo principio è particolarmente marcato nei Paesi di cultura protestante. Eppure, proprio in questi Paesi esiste da tempo quello che viene definito come il metodo della flexsecurity. Nella flexsecurity chi perde il posto di lavoro non perde il reddito, a condizione che si impegni in una attività di riqualificazione professionale. In questi Paesi non si parla di sostegno alla disoccupazione ma di risorse umane (in Ticino le competenze del nostro ministero del lavoro afferiscono al dipartimento delle risorse) e ci si preoccupa di avere risorse umane qualificate non come interesse privato delle singole imprese ma come bene pubblico, interesse del Paese. In questi Paesi non si cerca di scoraggiare i licenziamenti o di agevolare le assunzioni con vari incentivi ma si cerca di favorire lo sviluppo economico e di portare le imprese ad avere bisogno di più risorse umane di quelle che sono disponibili sul mercato.

Il reddito di reinserimento prima e il reddito di cittadinanza sembrano iscriversi in questa linea di pensiero, sembrano cioè iscriversi nella linea della flexsecurity. Rispetto alla situazione attuale degli strumenti di assistenza sociale ci si trova di fronte ad un significativo passo in avanti. Attualmente gli aiuti sociali sono un semplice bancomat, caratterizzato da microinterventi scoordinati miranti a tamponare situazioni di emergenza ma senza una strategia che miri a reinserire nel processo sociale in maniera attiva chi al momento si trova emarginato. Reinserire nei meccanismi attivi della società chi ne è fuori porta un vantaggio economico ben maggiore di quello che si ottiene riattivando keynesianamente la domanda. L’adozione di questo approccio non è però semplice. Bisogna intervenire e modificare una serie di prassi istituzionali consolidate, in maniera particolare è indispensabile un rapporto collaborativo tra organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali.

I pilastri della flexsecurity sono (a) l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e (b) l’aggiornamento delle competenze delle risorse umane. Per quanto riguarda l’incontro domanda/offerta di lavoro ci confronteremo con il sistema germanico, nella sua versione svizzera (che, quindi, è declinata anche in Italiano). Per quanto riguarda l’aggiornamento delle competenze delle risorse umane ci confronteremo con il sistema francese.

L’incontro domanda/offerta di lavoro

Per averci collaborato direttamente e per aver organizzato iniziative di confronto culturale conosco abbastanza bene il modello di incontro domanda/offerta di lavoro dell’area di cultura germanica, nella sua declinazione svizzera (si veda il sito www.orientamento.ch).
L’incontro domanda/offerta del lavoro presuppone uno strumento che permetta ai milioni di offerte e ai milioni di domande di essere accoppiate. Il mercato locale basato su un incontro person-to-person non è ipotizzabile. Tale metodo richiede molto tempo (di quanto si ridurrebbe il tasso di disoccupazione se il matching potesse avvenire in tempo reale? Del 2, del 3 o del 4%?). Tale metodo finisce, poi, con il condannare il cercatore di impiego dotato di competenze in un’area specifica ad accettare un lavoro qualunque dove non ha competenze specifiche e costringe il datore di lavoro ad accontentarsi di risorse umane non adeguate anche se le risorse umane adeguate esistono ma non si sa dove sono.

Questo incontro nel mondo germanico avviene sulla base di griglie di profili professionali molto dettagliate, costruite e costantemente manutenute da gruppi di lavoro paritetici composti da rappresentanti delle organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali. Il datore di lavoro segnala la sua richiesta inquadrandola in una casella della griglia. Il cercatore di impiego viene rapidamente valutato tramite un approfondito questionario. La richiesta del datore di lavoro viene messa a fuoco tramite una intervista (spesso telefonica) in cui dei funzionari della sezione del lavoro cantonale (equivalente al nostro centro per l’impiego) esperti in job analysis si accertano che la richiesta del datore di lavoro corrisponda esattamente alla casella della griglia indicata. Nella maggior parte dei casi il cercatore di impiego viene inviato per un periodo di 2 o 3 giorni nell’impresa che offre il lavoro, per verificare se l’incontro domanda/offerta proposto sia compatibile.

Chi perde lavoro viene sottoposto ad un rapido bilancio delle competenze e viene avviato ad adeguati corsi di riqualificazione.

La griglia di competenze, ovviamente, si trova su supporto informatico. Qui bisogna fare attenzione: non bisogna illudersi che ci si debba innanzi tutto dotare di strumentazione hardware e software. Quello che serve è, innanzi tutto, avere la griglia dei profili. Griglia che l’informatica non può creare ma senza la quale non può funzionare. Che poi si adotti il database oracle o peoplesoft poco cambia. Si dovrà semplicemente procedere alla parametrizzazione del programma di database.
Comprare strumentazione informatica o assumere informatici è assolutamente inutile.

La fase cruciale, dunque, è la creazione della griglia dei profili professionali. In Italia, oramai qualche decennio or sono, alcune Regioni Italiane (prima di tutte la provincia autonoma di Bolzano e poi la Regione Toscana), per rispondere alle richieste del Fondo Sociale Europeo, hanno messo a punto delle griglie simili. Qui si presentano, però, alcuni problemi: (a) le griglie non sono state messe a punto da dai datori di lavoro e dai sindacati ma da società di consulenza improbabili (che non hanno nessuna competenza in materia). Queste società di consulenza si sono concentrate sulla parte “facile” della definizione delle competenze: il saper essere (quindi hanno usato strumenti sociologici e psicologici) tralasciando la parte “dura” delle competenze: il sapere e, sopra tutto, il saper fare. La validazione delle competenze viene affidata, per meccanismi distorsivi simili, a valutatori di formazione generalista (sociologi, psicologi etc,) laddove nel mondo germanico la validazione è affidata a tecnici del settore cui è stato insegnato a farlo; (b) ogni regione ha sviluppato griglie diverse. Il risultato è che queste griglie non sono riconosciute dal mercato del lavoro.

Sulla base della legge Fornero, il Dlgs 13 del 2013 e il decreto interministeriale 30 giugno 2015 e, da ultimo, il decreto del Ministero del Lavoro dell’8 gennaio del 2018 sta tentando di recuperare quanto possibile da questo lavoro pregresso. Qui la sfida è produrre griglie e sistemi di validazione che “convincano” il mercato. La sfida non è facile perché richiede la collaborazione leale tra organizzazioni datoriali e sindacati. Per ora ci si continua orientare al semplice “saper essere”, sottovalutando pesantemente il sapere ed il saper fare.

L’aggiornamento delle competenze

La tematica è strettamente legata a quella dell’aggiornamento professionale, sopra tutto per chi è stato licenziato ed è alla ricerca di un nuovo lavoro e/o per evitare di venir licenziati. Qui l’analisi incrocia con quella dei Fondi Interprofessionali(1). I fondi interprofessionali(2)  sono stati creati sul modello DELORS, rendendo obbligatorio un investimento dello 0,30% della massa salariale in aggiornamento. Il modello adottato in Italia devia significativamente dall’originale di DELORS. Le differenze fondamentali sono:

  • (a) in Francia tutti i lavoratori devono seguire un minimo di giornate di aggiornamento pro anno su una offerta elaborata a livello centrale dalla collaborazione organizzazioni datoriali/sindacati; in Italia ogni impresa ha il suo fondo (formato dallo 0,30% dei dipendenti dell’impresa) su cui può finanziare corsi per i propri dipendenti; visto che la maggior parte delle nostre aziende sono delle microimprese, queste non riescono a cubare una cifra significativa per attivare dei corsi seri; si hanno due conseguenze:
    • i. o i fondi non vengono usati (quanti miliardi di Euro sono inutilizzati?) e, magari, potrebbero essere recuperati per finanziare i costi di messa a punto di adeguati uffici del lavoro;
    • ii. oppure si attivano meccanismi borderline che mirano a recuperare cifre ragguardevoli, forzando accoppiamenti di microimprese per fare corsi più o meno improbabili in maniera molto opaca
  • (b) in Francia i corsi non possono riguardare temi di interesse relativo allo sviluppo aziendale ma solo temi relativi all’aggiornamento del profilo professionale; in Italia i corsi riguardano quasi esclusivamente temi di interesse aziendale (il corso più diffuso è quello sulla sicurezza, obbligo di ogni datore di lavoro).

Suggerimenti

Quali ispirazioni/suggerimenti si possono trarre da quanto sopra detto?
Qui va detto, in maniera preliminare, che, senza voler accusare il passato, bisogna avere il coraggio di fare un salto di qualità e non si può aver timore di infrangere interessi costituiti.

Il primo banale suggerimento. Riguarda i Fondi Interprofessionali. Sui Fondi interprofessionali occorre fare un profondo ripensamento, prendendo anche in considerazione le cifre ragguardevoli per possono/debbono essere recuperate. Quella dei Fondi Interprofessionali è una vicenda che va affrontata con coraggio. Andrebbe indagato seriamente su quante risorse finanziarie restano inutilizzate e andrebbe indagato se i corsi organizzati per le risorse umane delle piccole imprese vengono sostanzialmente erogati..

Il secondo suggerimento riguarda le griglie dei profili. Qui bisogna chiedersi seriamente se il tentativo di salvare le griglie esistenti non sia uno spreco di risorse e non rimandi più in là nel tempo la ricerca di una soluzione. Le attuali griglie vengono rifiutate dagli operatori perché non sono operative ma teoriche. Qui una possibilità di salvare il lavoro già fatto può essere impostata nell’attività di aggiornamento delle griglie, attività che andrebbe fatta creando gruppi di lavoro formati non da psicologi o sociologi ma da operatori della professione. Questi gruppi di lavoro dovrebbero provvedere, nella loro continua opera di manutenzione delle griglie, ad avvicinare le griglie stesse allo European Qualification Framework(3).

Il terzo suggerimento riguarda le risorse umane da impiegare nei centri per l’impiego. Qui bisogna rendersi conto che non ne abbiamo di adeguate. Recentemente il Comune di Prato, l’ufficio per l’impiego di Prato e la ASL3 Toscana hanno tentato di attivare un processo coordinato di reintegra nel lavoro e si sono trovati costretti a creare da zero le figure professionali necessarie. Quindi bisognerà pensare ad un pensante programma di riqualificazione delle risorse esistenti e di formazione di quelle da reclutare. Considerando la mole del lavoro, si suggerisce di far tesoro delle esperienze maturate nei paesi dell’ex blocco comunista dove, dopo la famosa caduta del muro, è stato necessario procedere alla riqualificazione di masse ingenti di risorse umane. Qui sono stati sviluppati dei meccanismi moltiplicatori con effetto valanga che potrebbero essere replicati.

 

 


(1) per una anali seria e dissacrante dei fondi interprofessionali si veda Giovanni GALVAN, I fondi interprofessionali. Cosa sono, cosa offrono e come funzionano, Milano, FrancoAngeli 2014
(2) Il d.lgs 875 del 1978 stabilisce che lo 0,30% del monte salari venga dedicata alla formazione; successivi interventi sono : Art.118 del d.lgs. 388/2000 – «Interventi in materia di formazione professionale nonché disposizioni in materia di attività svolte in fondi comunitari e di Fondo sociale europeo»; Articolo 118, comma 2, della l. n. 388/2000 modificato dal d.lgs. n. 150/2015; Legge 2/2009; Art.48 del d.lgs. 289/2002 – «Fondi interprofessionali per la formazione continua»; circolare n.10/2016 del Ministero del Lavoro 18 febbraio; ANPAL circolare 1/2018 del 10 aprile 2018 – Linee guida per i Fondi Interprofessionali
(3) si veda il sito https://ec.europa.eu/esco/portal/escopedia/ESCO_Maintenance_Committee

 



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