Costruire Organizzazione

Costruire l’organizzazione

14 gennaio 2022

di Giuseppe NUCCI

Una delle principali criticità che emergono dalle analisi organizzative riguarda la carenza (o addirittura l’assenza) di una prospettiva olistica.

Questo articolo, nell’individuare come presupposto necessario la correlazione tra l’organizzazione pubblica o privata ed il contesto esterno, propone un framework in cui interagiscono tre elementi: la missione, i processi e la struttura organizzativa(1).

IL FRAMEWORK ORGANIZZATIVO

Da diversi decenni si parla di modello organizzativo funzionale‎–‎burocratico, divisionale e a matrice.

Figura 1 – Diverse tipologie di modelli organizzativi

Diverse tipologie di modelli organizzativi

Per la verità, sono state spesso richiamate anche le organizzazioni per processi e le organizzazioni piatte (o lean) ma, tranne che in letteratura, in concreto ci sono state poche applicazioni di questi ultimi modelli.

In realtà, però, al di là della scelta dei modelli da adottare, è proprio l’approccio agli assetti organizzativi che è spesso mal posto nel senso che l’attenzione risulta incentrata quasi esclusivamente sul «chi fa, chi è competente per…», ignorando quasi completamente una seconda componente, da anteporre logicamente alla prima, e che è correlata alle domande del tipo: «qual è l’obiettivo?», «in che modo posso conseguire l’obiettivo?», «come valuto se e in che misura ho conseguito l’obiettivo?».

È come se nelle competizioni di Formula 1, ci si concentrasse prioritariamente sulla scelta del pilota e del team di supporto e non sulla vettura e, principalmente, sul suo motore!

Entriamo più nel dettaglio.

Un’organizzazione potrebbe essere concepita come un framework, schematizzato nella Figura 2, in cui agiscono tre elementi:

  • una missione, da cui discende la scelta delle strategie e degli obiettivi attraverso i quali essa viene realizzata;
  • i processi, che “mettono in ordine” le attività che risultano necessarie per conseguire gli obiettivi prefissati;
  • la struttura organizzativa, che attribuisce le competenze per il governo dei processi e quindi, in tutto o in parte, sulla realizzazione degli obiettivi.

Figura 2 – Il framework organizzativo

Il framework organizzativo

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

Anticipiamo subito che l’ultimo dei tre elementi – la struttura organizzativa – è senza dubbio quello a cui, spesso, viene attribuita la maggiore importanza, rispetto agli altri due.
Ciò costituisce un errore logico e metodologico ed il motivo, molto probabilmente, deriva dal fatto che il concetto di competenza, legato alle varie posizioni organizzative che costituiscono la struttura, non è interpretato in modo chiaro ed univoco, e ciò non solo per la natura polisemica del termine…

A tale concetto, infatti, vanno associato almeno tre significati.
Il primo è quello legato all’individuazione di chi deve possedere l’autorità formale (costituita dall’insieme delle attribuzioni conferite) di trattare e risolvere determinate questioni: in questo senso la competenza definisce, ad esempio, il perimetro all’interno del quale un manager può esplicare i propri poteri.
Il secondo significato è legato a quello di capacità, e cioè di idoneità – intesa come possesso di un adeguato patrimonio professionale, culturale e relazionale ‎–‎ a ricoprire determinati ruoli.
Il terzo si identifica nella responsabilità, e cioè nel vedersi riconosciuta la paternità dei risultati – sia positivi che negativi – delle attività che rientrano nel proprio campo d’azione.

Il primo dei tre significati disegna ciò che normalmente è definita come “mappa del potere” e che risulta essere, senza dubbio, la parte più visibile della struttura organizzativa. Tuttavia, tale visibilità non garantisce chiarezza ed oggettività in quanto, come approfondito in molti studi di sociologia del lavoro, alla mappa formale si contrappone quella “reale”, implicita, fattuale e talvolta molto distante dalla prima.
In relazione alla seconda accezione, emerge talvolta una concezione taumaturgica: la nomina ad un certo ruolo crea “automaticamente” le capacità per esercitarlo! Questa abnorme situazione può derivare da errori – per certi versi fisiologici ‎–‎ legati alla modalità di scelta “intuitu personae” oppure da processi selettivi trasparenti ma inadeguati nonché da fattori extraprofessionali quali la fedeltà nei confronti del decisore e così via.
Il terzo significato, infine, è quello da cui dovrebbero discendere precisi criteri di imputazione del merito e del demerito in relazione ai risultati conseguiti: in questo ambito, purtroppo, si registrano le più evidenti carenze del sistema meritocratico, a causa del frequente venir meno del rapporto di causa – effetto tra gli obiettivi attribuiti ad un soggetto e il loro grado di conseguimento da parte di tale soggetto.

In relazione a quanto precede, risulta evidente che la struttura organizzativa viene a torto considerata la leva principale per intervenire in un’organizzazione e ciò, oltre ad essere fuorviante per le ragioni che diremo di seguito, è in genere accompagnato anche dalla mancata definizione dei presupposti su cui ci siamo soffermati che afferiscono, in particolare, alla precisa attribuzione, ad ogni attore organizzativo:

  • di una serie di obiettivi – definiti, specifici e misurabili – da conseguire;
  • di tutta quella serie di attività che sono teleologicamente e funzionalmente connesse a tali obiettivi;
  • di un sistema valutativo che riconduca il conseguimento o meno degli obiettivi ad un sistema premiante in grado di discriminare i meriti e i demeriti.

Accanto al concetto di competenza, la struttura organizzativa poggia su un altro elemento fondamentale: il sistema delle regole.

Questo sistema disciplina e caratterizza il funzionamento della struttura organizzativa e nel suo ambito possiamo distinguere due tipologie principali di regole.
La prima è quella delle regole di attribuzione, che indicano i perimetri di competenza di ciascun soggetto e, cioè, i suoi campi di azione.
La seconda tipologia, invece, è costituita dalle regole di funzionamento che definiscono il sistema di governance e di gestione. In particolare si tratta di un complesso di norme, formalizzate e non, che impattano in misura decisiva sulla cultura organizzativa dell’organizzazione e sulla sua performance.
In questa categoria possiamo distinguere le regole di funzionamento di tipo ordinativo e quelle di tipo operazionale.

Le prime sono incentrate su «chi ha l’autorità su cosa» e cioè servono a “distribuire l’autorità”. Esse sono alla base di modelli caratterizzati dai seguenti elementi:

  • i processi e le procedure non sono formalizzati (si basano sul “precedente”) e spesso vengono modificati quando cambia il responsabile;
  • il responsabile controlla l’input in entrata e attribuisce l’incarico al collaboratore: in definitiva controlla tutto e firma personalmente ogni documento, indipendentemente dalla sua rilevanza;
  • l’organizzazione si basa sul rapporto personale tra manager e collaboratore e non sulla programmazione delle attività e, quindi, reagisce agli stimoli dell’ambiente anziché anticiparli.

Il limite maggiore è costituito dal fatto che il responsabile, poiché si occupa di tutto, diventa spesso un collo di bottiglia – e quindi rallenta i processi – oppure, a causa della mole di lavoro, “firma” una quantità elevata di documenti che non è in grado di controllare.

Le regole di funzionamento di tipo operazionale, invece, sono quelle che definiscono «chi deve fare cosa e quando» e, quindi, si manifestano attraverso la formalizzazione dei processi e la redazione di procedure. I caratteri distintivi sono i seguenti:

  • non è necessaria una sistematica operazione interpretativa (che si manifesta con la cosiddetta “annotazione” sul documento), da parte del responsabile, su ogni questione che rientra nella sua competenza in quanto il modus operandi è già predefinito per la maggior parte delle fattispecie;
  • il responsabile ricorre di norma alla delega e a controlli a campione, intervenendo solo sul limitato numero di casi atipici e non codificati;
  • il responsabile si avvale regolarmente di cruscotti direzionali per verificare, ad esempio, lo stato di avanzamento delle pratiche, le tempistiche (per fasi, per collaboratore, ecc.) e per monitorare gli aspetti di interesse organizzando un sistema di alert collegato ai controlli automatizzati.

In sostanza, il responsabile si interessa soprattutto degli aspetti organizzativi necessari per migliorare l’efficacia e l’efficienza della struttura e la conformità.

In definitiva le regole di funzionamento influenzano il modello organizzativo indirizzandolo verso quello burocratico, in cui il responsabile interviene direttamente su tutte le attività gestionali, controllandole costantemente, oppure verso quello manageriale, in cui il responsabile organizza, delega e supervisiona.

LA MISSIONE

La missione è un ulteriore elemento che compone il framework organizzativo. Questo termine, utilizzato normalmente in lingua inglese (mission), nel dibattito sulle organizzazioni evoca un ambito teorico, poco concreto, talvolta considerato “di moda” insieme ad altri termini correlati (la famigerata vision, ad esempio), la cui utilità è troppo spesso circoscritta alla costruzione di slogan utilizzati nelle presentazioni aziendali, nelle convention e nei breafing.

Ritengo che questa sia la causa di molte criticità tipiche delle organizzazioni.

Sul significato di missione mi piace riprendere un’espressione che, nonostante non brilli per stile ed eleganza, chiarisce perfettamente il concetto: «la missione indica il perché un’organizzazione esiste».
Inoltre, secondo i canoni della comunicazione d’impresa, quanto mai calzanti come in questo caso, la missione deve essere chiara, molto sintetica e rivolta agli stakeholder interni ed esterni dell’organizzazione.

È sorprendente quanto, in concreto, la missione sia considerata alla stregua di un orpello di natura pubblicitaria con il risultato che l’identità stessa dell’organizzazione risulti definita in misura insufficiente o, addirittura, per niente.
A conferma di ciò, ricordo di aver chiesto ‎–‎ in tutte le organizzazioni in cui ho lavorato – nelle prime riunioni a cui partecipavo, di spiegarmi quale fosse la missione: la maggior parte delle persone aveva una risposta diversa da quella degli altri, e ciò valeva anche per coloro che vantavano una seniority elevata!

Nel settore pubblico il problema è aggravato dall’esistenza di quella che possiamo definire come la missione formale. Con questa espressione mi riferisco alla descrizione ‎–‎ contenuta nei primi articoli delle leggi e dei decreti istituitivi di ogni amministrazione ‎–‎ del corposo elenco di attività che le amministrazioni svolgono “nell’ambito di… fatto salvo…al fine di… tenuto conto delle esigenze di efficacia, efficienza ed economicità…”: in realtà non si tratta della missione ma di una tassonomia di attività.

Ma perché è così importante il concetto di missione? A mio avviso perché è strettamente correlata con almeno due elementi fondamentali delle organizzazioni: la cultura organizzativa e l’identità.

Sulla cultura organizzativa è importante premettere innanzitutto che affinché un’organizzazione possa operare coerentemente con la propria missione, e quindi possa perseguirla, occorre che realizzi ciò che le persone richiedono e permettono. In altri termini i comportamenti sono profondamente caratterizzati dalla cultura organizzativa e cioè da taciti assunti che coinvolgono anche la missione e, più precisamente, il modo con cui essa è interpretata.

La cultura organizzativa può essere definita come un elemento che influenza i comportamenti ed il modo di pensare delle persone e, sebbene sia resa esplicita attraverso comportamenti manifesti, rituali, artefatti e valori dichiarati, la sua essenza è data dagli assunti taciti e condivisi.
Più specificamente, secondo il sociologo del lavoro Edgard Schein la cultura organizzativa può essere osservata attraverso tre livelli di visibilità rappresentati, attraverso un suo schema(2) – rielaborato nella Figura 3 ‎–‎ dal più evidente a quello più nascosto.

Figura 3 – Livelli di visibilità della cultura organizzativa

Livelli di visibilità della cultura organizzativa

Questo modello interpretativo aiuta anche a cogliere incongruenze tra schemi comportamentali, ad esempio tra artefatti e valori dichiarati oppure tra tali valori e quelli taciti.
E in quest’ultimo caso in particolare – in cui rientra anche l’ipotesi di una missione “dichiarata” non allineata con quella “effettiva” (sia essa incoerente, ambigua o non definita) – si genera confusione, non si interiorizza un “comune sentire” e, conseguentemente, non si sviluppa una prospettiva valoriale ed operativa condivisa.

Tutto ciò influenza anche l’identità in quanto essa è correlata alla “qualità” della cultura organizzativa, in cui agisce con un ruolo di estremo rilievo anche la missione secondo modalità di reciproca interazione.

L’identità, è forse utile chiarirlo, può essere definita come ciò che una certa entità è realmente e si distingue dall’immagine che, al contrario, si basa sulla percezione che altri soggetti – o anche se stessi nel caso della cosiddetta “immagine riflessa” – hanno di una certa entità.

Prima di concludere queste notazioni sulla missione, è necessario fare un cenno alle strategie e agli obiettivi.
In sostanza una qualsiasi organizzazione declina la propria mission in un numero (limitato) di linee strategiche riferite, da un lato, al core business e, dall’altro, ad ambiti gestionali e di supporto.

Le strategie indicano la strada da seguire per raggiungere gli obiettivi e, cioè, costituiscono il piano di azione elaborato dal management attraverso un insieme integrato di decisioni volte ad assicurare adeguati livelli di performance.
Per ogni linea strategica vengono quindi individuati degli obiettivi per ciascuno dei quali deve essere stabilito un peso ponderato rispetto alla sommatoria di tutti gli obiettivi obiettivi – in modo da definire la rilevanza di ogni obiettivo rispetto a tutti gli altri -, un set di indicatori ed un target (e cioè la percentuale di realizzazione dell’obiettivo).

Le caratteristiche degli obiettivi vengono tradizionalmente sintetizzate con l’acronimo inglese SMART secondo il quale ognuno di essi deve essere:

  • specific (specifico);
  • measurable (misurabile);
  • achievable (raggiungibile);
  • realistic (realistico);
  • time‎–‎based (temporizzabile).

 

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LEGGI QUI l’articolo successivo  2/2,  I processi nelle organizzazioni: dalla teoria alla pratica…


Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1)  Nell’articolo sono rielaborati concetti espressi nello studio “Progettare il framework organizzativo. Un ruolo innovativo per l’internal audit nel disegno dei processi” pubblicato sulla rivista, Azienditalia, Wolters Kluwer – IPSOA, n. 1, 2021.

(2)  Cfr. Edgar H. Schein, Culture d‘impresa, Raffaello Cortina Editore, 2000, pag. 26.

 



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