Compliance Comunicazione Proattiva

Regulatory Compliance: la via della “Rivoluzione Proattiva”

1 febbraio 2021

di Alessio TACCOLA

Una rivoluzione proattiva è possibile?

Le istanze regolatorie all’interno della multilevel governance europea sono indiscutibilmente diventate, almeno negli ultimi anni, elemento ad impatto olistico per entities e financial institutions.

Di fatto, tali obblighi, di natura eterogenea ma appartenenti al vasto genus della compliance, hanno posto innumerevoli interrogativi non soltanto in chiave strettamente giuridico-interpretativa, ma anche in termini di sostenibilità aziendale.

Alla stregua dei continui mutamenti dei modelli economici e strutturali di riferimento, culture organizzative hanno visto il decisivo confronto tra due indirizzi, spesso ritenuti dicotomici. Da una parte, il rafforzamento della componente puramente “business, in grado di far fronte alle complessità e alle continue sfide del mercato. Dall’altra, il consolidamento del capitale umano che faccia fronte al rispetto dei crescenti obblighi in materia di conformità e gestione del rischio.

Quella che rappresenta una valutazione decisiva e ad effetti non trascurabili, può e deve tenere conto di aspetti inaspettatamente sottovalutati.

LA COMPLIANCE È COMUNICAZIONE

La compliance è, per sua stessa natura, un processo comunicazionale. O meglio, secondo il pensiero dei primi teorici e recenti esponenti della dottrina(1), un dialogo di proficua collaborazione tra sfera pubblica e privata, per colmare il divario – o almeno stemperare le differenze – tra questi interessi.

Ciò che invece è ontologicamente emerso, anche alla luce delle sempre più frequenti sanzioni emanate dalle autorità pubbliche di riferimento(2), è in realtà un assetto differente. Lo Stato (e in più generale l’autorità pubblica) si trova sistematicamente nella posizione di poter imporre, e la controparte privata nell’obbligo a contrarre, offrendo così esigui momenti di effettiva concertazione, se non inquadrabili all’interno di trame perlopiù accusatorie. Una comunicazione, pertanto, definibile latu sensu come verticale, non mutualmente vantaggiosa, e caratterizzata da un dilagante aumento dei costi (come scientemente riportato da W. L. Laufer)(3), rafforzando la percezione della compliance stessa come onere, più che effettiva opportunità.

Recuperare la funzione partecipativa delle entities, non solo come centri di informazione da cui attingere, bensì come effettivi players del sistema governance, pretende una rivalutazione complessiva del ruolo del Compliance Officer, potenzialmente chiamato non soltanto a evitare la sanzione, ma a svolgere ulteriori funzioni ad inesplorato potenziale. È utile ricordare come tentativi di colmare il gap tra interesse privato e pubblico esistano e abbiano mostrato un enorme potenziale – incluse nel nostro ordinamento le procedure di notice & comment delle autorità amministrative indipendenti – tuttavia manifestando ancora alcune incertezze in termini di efficacia.

L’impostazione suggerita – che si lega alle teorie minoritarie della Proactive Law di origine scandinava(4) – disegna attorno a chi si occupa di conformità il compito di riappropriarsi di questo dialogo, e di incanalarlo all’interno di tutti quei canali istituzionalizzati che ammettono una sinergica concertazione con il private sector. I benefici che possono essere ottenuti attraverso questa funzione, potenzialmente associabile ad un compito di specialista dei c.d. public affairs, sono molteplici:

  • La promozione di un sistema partecipativo e standardizzato;
  • Una maggiore e più efficace collaborazione tra entities gravate da obblighi omogenei, per il raggiungimento di più ragionevoli condizioni per l’intero ecosistema normativo di riferimento(5);
  • L’indicazione di possibili vulnerabilità sistemiche, permettendo all’autorità di intervenire tempestivamente su aspetti regolatori che necessitano l’expertise di coloro che giornalmente affrontano le problematiche della risk-based regulation;
  • Il potenziamento delle linee guida come strumento di soft law generalizzato.

Oltre ad un rinnovato interesse verso l’autorità pubblica di riferimento – come team-player per il raggiungimento di una better regulation – tale funzione di “advocacy” ammetterebbe altresì il superamento dell’attuale modello top-down. Una compliance che verrebbe così a concretizzarsi a partire “dal basso”, o meglio, anticipando il suo normale ingresso nel rapporto tra Stato e privato, vedendo come scopo ultimo non soltanto assicurare una maggiore conoscenza, trasparenza e consapevolezza dell’obbligo regolatorio, ma anche mitigarlo attraverso un dialogo bidirezionale.

DALLA TEORIA ALLA PRATICA “PROATTIVA”

Possiamo, in questo senso, interpretare l’articolo 6, sez. 2 (“valutazione del rischio”) della direttiva UE 2015/849 del Parlamento Europeo e del Consiglio(6), con la quale la Commissione si è impegnata con cadenza biennale ad elaborare una relazione che valuti:

  • i settori del mercato maggiormente esposti al rischio,
  • i rischi associati a ciascun settore interessato ed,
  • i mezzi più diffusi cui ricorrono i criminali per riciclare proventi illeciti.

In particolare, al paragrafo 3, la Commissione mette tale relazione a disposizione degli Stati membri e dei soggetti interessati inclusi (ma non limitandosi) ai legislatori nazionali, Parlamento europeo e rappresentanti delle Financial Intelligence Unit. È nell’interpretazione estensiva di questa norma che appare configurarsi in capo a coloro che si occupano di conformità la facoltà di poter partecipare al procedimento normativo comunitario, mettendo l’expertise dei soggetti obbligati a disposizione del legislatore per una più ampia concertazione, così incidendo sui futuri indirizzi, e beneficiando intere categorie di riferimento, con una potenziale e non scontata diminuzione delle ipotesi di mancata conformità. Effetti – quelli derivanti dalla diminuzione delle sanzioni – che si tradurrebbero non soltanto in termini di scongiurata penalizzazione economica, ma anche in termini reputazionali, e di credibilità nei confronti degli stakeholders, che rappresentano – anche secondo la dottrina economica – degli asset aziendali tout court(7).

Complessivamente, questa nuova dimensione per il Compliance Officer sembra in grado di incidere profondamente sullo status quo, e le implicazioni pratiche di tale approccio “proattivo” rimangono ancora effettivamente da scoprire ed apprezzare. Pur rimanendo in capo ai soggetti obbligati la facoltà di scegliere qualora intraprendere questo cammino, di aggiungere tali frecce all’armamentario di una professione fluida e in continuo divenire permetterebbe il consolidamento di tale funzione ad aspetto vitale per il successo dell’intero ecosistema aziendale.

 

Intervento del Dott. Alessio TACCOLA LL.M.,  AML e CTF Analyst  c/o Adyen N.V.

 


Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1)   Sul punto, sono oltremodo interessanti le argomentazioni di M. A. Frison-Roche (2016), “Compliance Law” – www.mafr.fr

(2)  J. Jaeger (2020), “Fines against financial institutions hit $ 104B in 2020” – www.complianceweek.com

(3)  In particolare, l’articolo si riferisce al paper di W. L. Laufer, “A Very Special Regulatory Milestone”, University of Pennsylvania Journal of Business Law, 391, 2018

(4)  Per una panoramica sugli elementi essenziali di questa dottrina minoritaria, G. Berger-Walliser (2012), “The Past and Future of Proactive Law: An Overview of the Proactive Law Movement” – www.researchgate.net

(5)  Fenomeni aggregativi di rilievo già esistono, pur raccogliendo soltanto parzialmente la “voce” di alcuni sottoinsiemi di attori del panorama finanziario europeo. In questo senso, possiamo citare la European Banking Federation

(6)   Direttiva UE 2015/849 del 20 maggio 2015  –  IV Direttiva Antiriciclaggio

(7)  La dottrina è sostanzialmente unanime nel considerare, ad oggi, la reputazione vero e proprio asset aziendale che, in quanto tale, necessita di adeguato sviluppo nel tempo. In questo senso, V. Rindova, I. O Williamson, A. P. Petkova (2010), “Reputation as an Intangible Asset: Reflections on Theory and Methods in Two Empirical Studies of Business School” – www.researchgate.net

 



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