Fondazione CRT Torino

Genesi, Normativa e Stato Attuale delle Fondazioni di origine bancaria – Parte 2

11 giugno 2017

di Salvatore CARRANO

Le primarie normative che disciplinano le Fondazioni sono le seguenti:

• Legge Amato-Carli: L. 218/90 e D.Lgs. 356/90
• Direttiva Dini: L. 474/94 e Direttiva 18/11/94
• Legge Ciampi: L. 461/98 e D.Lgs. 153/99
• Riforma Tremonti: L. 448/2001
• Corte Costituzionale: Sentenze n. 300 e n. 301 – 2003
• Legge di stabilità 2015: L. 190/2014
• Carta delle Fondazioni
• Protocollo Intesa Acri-MEF

La legge Amato-Carli: la comparsa delle Fondazioni di origine bancaria

Con la legge Amato-Carli, le Casse di Risparmio, i Monti di Credito su Pegno (al 31/12/1990 operavano in Italia 75 Casse e 7 Monti di prima categoria) e gli Istituti di credito di diritto pubblico senza fondo di dotazione a composizione associativa, ebbero facoltà di conferire l’azienda bancaria alla società per azioni conferitaria e ricevere in cambio azioni per un valore commisurato allo stesso conferimento.

L’ente originario conferente, continuava a esistere come Fondazione e, oltre a esercitare il controllo totale sulla società per azioni che svolgeva l’attività bancaria, perseguiva “scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico” .

Le disposizioni della legge Amato-Carli non obbligavano le aziende di credito alla trasformazione in S.p.A. e lasciavano, anzi, autonomia decisionale a ogni singola banca. Tuttavia, la persuasione attuata attraverso le agevolazioni fiscali concesse alle banche che ne usufruivano, evidentemente ebbe i suoi effetti tant’è che in pochi anni la quasi totalità degli istituti di credito pensò di raccogliere l’opportunità offerta dalla legge.

Una riforma, la legge Amato-Carli, che rispettava la natura e gli obiettivi degli enti originari che ebbero proprio la loro iniziale comparsa nel mondo dell’intermediazione creditizia come istituzioni finanziarie senza scopo di lucro e dediti alla solidarietà sociale. E alle Fondazioni era consentito, appunto, utilizzare i proventi delle partecipazioni unicamente per scopi di interesse pubblico e di utilità sociale. Nello stesso tempo, le società per azioni che svolgevano l’attività di intermediazione creditizia, potevano aprirsi ai capitali privati e lentamente svincolarsi dal controllo pubblico. In realtà la legge Amato-Carli garantiva scarsa autonomia gestionale alle S.p.A. partecipate in quanto la governance della conferente controllante (la Fondazione) era composta prevalentemente da soci scelti tra rappresentanti e amministratori di enti pubblici. Né, tanto meno, con questa prima legge sulle Fondazioni si realizzò quella tanto sbandierata privatizzazione perché, se era pur vero che l’attività bancaria era svolta da una società di capitali, quest’ultima era controllata dall’ente originario conferente che ne possedeva la totalità delle azioni. Per dirla con parole del prof. Trivieri, “Le disposizioni della 218/90 proponevano un mero processo di cambiamento giuridico-formale degli enti pubblici creditizi. Per questa ragione, con riferimento alla legge Amato-Carli, sarebbe più appropriato parlare di liberalizzazione del controllo e della proprietà delle banche, piuttosto che di privatizzazione” (A suo tempo si parlò di privatizzazione fredda).

 

La direttiva Dini: gli incentivi per le cessioni delle partecipazioni

Il permanere del controllo pubblico non rappresentava, per le S.p.A. che svolgevano attività bancaria, certamente un’opportunità utile a perseguire obiettivi finalizzati alla massimizzazione dei profitti. Quei criteri di nomina nei consigli di amministrazione delle Fondazioni controllanti poco meritocratici e spesso rispondenti a logiche di mera spartizione delle cariche, fungevano piuttosto da freno per l’attuazione di strategie mirate all’ottimizzazione dei costi e alla crescita dimensionale. Con il d.l. 31/05/94, convertito in legge nel successivo luglio, il legislatore, abolendo la norma che attribuiva alle Fondazioni la maggioranza di voto nelle assemblee delle S.p.A. conferitarie, evidentemente già si proponeva di compiere un ulteriore passo verso la reale privatizzazione. E successivamente, l’allora ministro del Tesoro, Lamberto Dini, volle incentivare la dismissione delle partecipazioni offrendo la detassazione delle plusvalenze alle Fondazioni che, nell’arco dei cinque anni successivi all’emanazione della direttiva avvenuta il 18/11/94, avessero ridotto la quota di partecipazione nella S.p.A. conferitaria a un ammontare inferiore o uguale al 50%. Tuttavia, forse perché la direttiva in quanto tale non rappresentava un’imposizione, o anche perché il provvedimento conteneva norme eccessivamente rigide sia per la dismissione delle partecipazioni e sia per l’impiego dei proventi realizzati, pochi enti si avvalsero dell’incentivo offerto per ridurre la quota azionaria e le Fondazioni continuarono ad avere il totale controllo delle S.p.A. conferitarie.

 

La legge Ciampi: la trasformazione delle Fondazioni di origine bancaria in enti di diritto privato

Carlo Azeglio Ciampi, con la legge a suo nome, decise di portare a compimento quel processo, avviato e non ancora definito, di ristrutturazione del sistema creditizio nazionale. E, difatti, la legge n. 461 del 98 e il successivo d.lgs. 153 del 99, assegnavano completa autonomia gestionale e statutaria alle Fondazioni bancarie e, in via definitiva, le trasformavano in enti di diritto privato. “Le Fondazioni sono persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” (così nell’art. 2 d.lgs. 17 maggio 1999, n. 153). Inoltre, il d.lgs. del 99, prevedendo che le Fondazioni bancarie dovessero dismettere entro quattro anni le partecipazioni delle S.p.A. conferitarie, consentiva a queste ultime di poter esercitare l’attività bancaria perseguendo principalmente quegli obiettivi tipici delle aziende private e consistenti nel miglioramento dell’efficienza operativa finalizzate all’incremento dei margini di profitto. La legge Ciampi indicava nell’art. 1, comma 1, lett. d del d.lgs. 153, i settori della ricerca scientifica, dell’istruzione, dell’arte, della conservazione e valorizzazione dei beni e delle attività culturali e dei beni ambientali, della sanità e dell’assistenza alle categorie sociali deboli, come i settori rilevanti tra i quali le Fondazioni di origine bancaria avevano libera scelta di esercitare la propria attività. Le Fondazioni potevano provvedere “direttamente” ad assolvere i compiti “di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico” ai fini degli adempimenti statutari (Fondazioni operating), oppure semplicemente avevano la possibilità di erogare fondi a enti no profit che operavano nei settori previsti dalla normativa (Fondazioni grant-making).

Nonostante la legge Ciampi contenesse disposizioni che avrebbero dovuto assegnare piena autonomia gestionale alle società bancarie partecipate rendendole indipendenti dalle Fondazioni, l’ente conferente continuava a esercitare un marcato peso decisionale, diretto o indiretto, sulle conferitarie. Probabilmente, la posticipazione dell’obbligo della dismissione del pacchetto di maggioranza previsto entro i quattro anni successivi, non dimissionava le Fondazioni dal controllo (diretto) delle conferitarie. Così pure, la possibilità (o comunque il mancato divieto) di poter nominare dei membri del proprio Consiglio di amministrazione negli organi di governo delle banche partecipate, permetteva alle Fondazioni di conservarne il controllo (indiretto).

 

La riforma Tremonti: la “ripubblicizzazione” delle Fondazioni di origine bancaria

La legge 448/2001, meglio conosciuta come legge Tremonti, conteneva disposizioni normative che restituivano natura pubblicistica alle Fondazioni e puntavano a renderle dipendenti da una competenza legislativa regionale.

Il ritorno all’ambito pubblicistico della legge 448/2001 era desumibile dalla normativa che, modificando i criteri di nomina dei componenti dell’Organo di indirizzo, mirava a sconfessare la natura privatistica delle Fondazioni. La governance delle Fondazioni si reggeva su tre distinti organi che erano: di indirizzo, di amministrazione e di controllo.

All’organo di indirizzo erano affidati, tra gli altri, i compiti di:

• programmare gli obiettivi e le attività strategiche dell’ente;

• modifica e approvazione degli statuti;

• gestire il patrimonio e la politica degli investimenti;

• approvare il bilancio.

Dalle competenze attribuite all’organo di indirizzo, si evince che averne la rappresentanza maggioritaria, di fatto, consentiva di governare la Fondazione. Precedentemente alla riforma Tremonti all’interno dell’organo di indirizzo era prevista “un’adeguata e qualificata rappresentanza del territorio, con particolare riguardo agli enti locali, nonché un apporto di personalità che per professionalità, competenza ed esperienza, in particolare nei settori cui è rivolta l’attività della Fondazione, possano efficacemente contribuire al perseguimento dei fini istituzionali”. La normativa Tremonti, obbligava ad avere nell’organo di indirizzo delle Fondazioni una prevalenza di componenti scelti, di cui all’art. 114 della Costituzione, tra i rappresentanti di Comuni, Province e Regioni.

La legge Tremonti, modificando altresì l’art. 1, comma 1, del d.lgs. 153 del 99, vincolava l’esercizio dell’attività delle Fondazioni nei settori ammessi che, raggruppati in quattro macro aree di attività, risultavano composti da: 1) famiglia, formazione, volontariato, assistenza e beneficienza. 2) prevenzione, sicurezza, sviluppo e salute pubblica. 3) ricerca e ambiente. 4) arte e beni culturali. Tra queste quattro macro aree, le Fondazioni bancarie dovevano scegliere i settori rilevanti (almeno uno e con un massimo di tre) nei quali esercitare l’attività prevalente.

I vincoli a operare nei settori ammessi, tra i quali alcuni tradizionalmente prerogativa delle pubbliche amministrazioni, e la composizione prevalente nell’organo di indirizzo di rappresentanti provenienti da enti pubblici territoriali, lasciavano chiaramente trasparire la “ripubblicizzazione” delle Fondazioni bancarie “sia quanto a regole di governance sia quanto a finalità”.

Il rientro nell’ambito pubblicistico delle Fondazioni spinse alcune Regioni a rivendicarne la competenza legislativa. La rivendicazione si fondava sulla riforma dell’art. V della Costituzione (L. Costituzionale 18/10/2001, n° 3), che aveva assegnato alle Regioni la disciplina – seppure concorrente – delle Casse di Risparmio, Casse Rurali e aziende di credito ed enti di credito agrario e fondiario aventi carattere regionale. La tendenza del legislatore a disconoscere la natura privatistica delle Fondazioni e il loro progressivo distacco dalle S.p.A. conferitarie, consentiva alle regioni – come si vedrà erroneamente – di considerare le Fondazioni enti tuttora legati al sistema creditizio e, quindi, ad averne competenza legislativa.

 

Corte Costituzionale, sentenze n. 300 e n. 301 – 2003: riconfermata la natura privatistica delle Fondazioni

La Corte Costituzionale, con due sentenze, il 29/09/2003 cancellava i propositi della legge Tremonti di riportare le Fondazioni bancarie a un ambito pubblicistico seppellendone anche le rivendicazioni “per un’interpretazione federalista del loro modello istituzionale”.

Con la prima sentenza, la n. 300, La Corte Costituzionale, a fronte di impugnative da parte delle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria osservava “che il processo di trasformazione degli ex-enti pubblici creditizi in Fondazioni, avviato nel 1990 e proseguito con varie riforme fino al 1999, è oggi portato a compimento, con la dismissione delle partecipazioni azionarie originariamente detenute nelle banche e con l’approvazione dei nuovi statuti; con la conseguenza che le Fondazioni, estranee all’ordinamento bancario e qualificate dalla legge come persone giuridiche private senza fine di lucro, ricadono nella materia dell’ordinamento civile, assegnata alla competenza esclusiva dello Stato, secondo l’art. 117, secondo comma, della Costituzione”. La sentenza n. 301, segnalava l’illegittimità costituzionale nel decreto legislativo n. 153 del 1999 nella parte che disponeva per gli organi di indirizzo delle Fondazioni “una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato”, di cui all’art. 114 della Costituzione, anziché “una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, pubblici e privati, espressivi delle realtà locali”. Nella stessa sentenza 301, si rilevava ancora l’illegittimità costituzionale della normativa che attribuiva il “potere di emanare atti di indirizzo vincolanti per le Fondazioni” all’Autorità di vigilanza.

Alla fine, a seguito del pronunciamento della Corte costituzionale, l’emendamento Tremonti veniva svuotato degli aspetti che più lo caratterizzavano e i tormentati processi di riforma che avevano assegnato alle Fondazioni la natura privatistica ottennero, confortati dall’autorevole “beneplacito costituzionale”, la definitiva legittimazione.

 

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