Discrezionalità e limiti (imposti dal benchmark) nella gestione individuale di portafogli

11 febbraio 2017

di Francesco SALERNO

Nella gestione su base individuale e per conto terzi di portafogli di valori mobiliari il cliente affida all’intermediario il compito di effettuare, per suo conto, attività di investimento e disinvestimento del patrimonio affidatogli, con l’obiettivo di conseguire un incremento del relativo valore. La delega che in tal caso il cliente attribuisce al gestore consente a quest’ultimo una certa discrezionalità di movimentazione e di scelta dei prodotti sui quali investire, ma pur sempre nel rispetto di taluni limiti stabiliti dal cliente.

Al di là della possibilità, riconosciuta dall’art. 24 del d.lgs. 58/1998 (t.u.f.), di impartire istruzioni in merito alle operazioni da compiere, al cliente è infatti consentito – in particolar modo dall’art. 38 del Regolamento Consob 16190/2007, che richiede ai contratti di gestione di darne conto – di indicare, fra l’altro, i tipi di strumenti finanziari che possono esser inclusi nel portafoglio, gli obiettivi ed il livello del rischio entro il quale esercitare la discrezionalità di gestione, la possibilità per il portafoglio di essere caratterizzato da effetto leva. Per permettere al cliente, già al momento della stipula del contratto di gestione, di prefigurare un livello di rischiosità conforme alle proprie abitudini e propensioni d’investimento, oltre che per consentirgli un controllo, nel tempo, sui risultati della gestione, il contratto deve altresì fornire “la descrizione del parametro di riferimento, ove significativo, al quale verrà raffrontato il rendimento del portafoglio del cliente” (1).

Nella prassi questo “parametro” è denominato benchmark, termine di generica valenza comunemente utilizzato per indicare un criterio di riferimento ai fini di una verifica ovvero di una misurazione. Nel caso delle gestioni patrimoniali, quindi, il benchmark rappresenterebbe il criterio in base al quale verificare il rispetto da parte del gestore dei limiti posti dal contratto alla sua discrezionalità nonché per un raffronto dei risultati raggiunti (dalla gestione) rispetto alle aspettative del cliente.

La valenza di questo criterio è stata spesso dibattuta, avendone i gestori in più occasioni sostenuto la natura non vincolante. Secondo questa tesi, in particolare, il benchmark non rappresenterebbe altro che un mero indicatore privo di una specifica valenza contrattuale che, per sua natura, non imporrebbe un vincolo in ordine alle scelte di investimento attuabili dal gestore.

Questa tesi, non sempre chiaramente smentita dalla giurisprudenza di merito (2), è stata di recente più volte rigettata, in ultimo dalla sentenza del 3 gennaio 2017, n. 3. Con tale decisione la Suprema Corte ha in particolar modo confermato l’orientamento stando al quale, una volta identificato un benchmark e scelta quindi una certa linea di gestione, l’intermediario potrà dar seguito solo alle operazioni allineabili a questa. Il gestore che, trascurando questi limiti, indirizzi la gestione verso strategie di investimento non coerenti con il benchmark prescelto, darebbe perciò luogo ad un inadempimento dei propri obblighi contrattuali con conseguente diritto dell’investitore al risarcimento dell’eventuale danno subìto (3).

Nel caso deciso dalla citata decisione della Suprema Corte, la banca aveva sostenuto l’impossibilità di attribuire al benchmark valore negoziale in quanto mero indicatore non vincolante il gestore all’acquisto dei titoli nelle proporzioni stabilite. Questa tesi non era stata però accolta dalla Corte di Appello che, confermando la decisione di primo grado, aveva invece ritenuto integrato un inadempimento da parte della banca per avere quest’ultima “attuato una gestione incoerente con i rischi contrattualmente assunti e sinteticamente rappresentati dal benchmark”. Nello specifico, l’inadempimento della banca doveva ritenersi sussistente poiché per un considerevole periodo di tempo (circa sei mesi) quest’ultima aveva messo in atto una politica di gestione non coerente con il profilo di rischio dell’investitore. Confermando questa decisione della Corte di Appello, la Suprema Corte ha quindi concluso, definitivamente, che per delineare le caratteristiche della gestione “assume un ruolo fondamentale proprio il benchmark”, il quale, se da un lato “non impone al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate”, dall’altro costituisce un modo per valutare la razionalità e la adeguatezza dell’attività dell’intermediario, “giacché ad ogni benchmark [è] associato un rischio misurato statisticamente dalla volatilità che caratterizza il parametro prescelto a riferimento”

Potendosi dunque concludere che, nell’interesse del cliente ed al fine di ottimizzare l’investimento, il gestore può sì esercitare una certa discrezionalità, tant’è che al gestore non è rigorosamente imposto di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, ma in nessun caso questa discrezionalità potrà essere esercitata trascurando i dichiarati obiettivi di investimento ed i profili di rischio del cliente per come desumibili (anzitutto) dal benchmark.

 

Intervento di Francesco SALERNO, Avvocato, è partner responsabile del settore legale di Studio Associato (KPMG)

 


(1) Cfr. art. 38, lett. d), del Regolamento Consob 16190/2007.

(2) Cfr. Trib Bari Sez. II, 27 giugno 2005.

(3) Cfr. anche, in argomento, Cass. 1 dicembre 2016, n. 24545, nonché, per la giurisprudenza di merito, Trib. Bologna 3 febbraio 2015, n. 434.

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